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Esperienza del limite e vicinanza di Dio - Quarta parte: Il popolo di Dio – Attraversare l'abbandono

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25/08/2010

Prof. Roberto Mancini
Docente di Ermeneutica Filosofica, Università di Macerata

Il popolo di Dio
Se ci si concentra sul modo d’essere di Gesù, su come egli sporga irriducibilmente oltre le convenzioni, le ideologie e le fantasie religiose, colpisce quanto, al suo confronto, risultino stonate e non credibili le figure dei potenti e delle autorità in ogni campo, a partire dallo stesso ambito religioso. Chi fa valere un potere verticale, che sia di tipo economico, politico, culturale o religioso, non si muove mai come Gesù. Nello specchio vivente che il Figlio tuttora offre, si coglie un Padre che sfugge a ogni collocazione nello spazio della potenza. E infatti l’esperienza della presenza di Dio si apre solo lì dove c’è il fallimento dei disegni umani di potere sugli altri. Questa presenza ci sorprende emergendo lì dove vivono gli esclusi dalle istituzioni e dalla normalità costituita. Essi sono la traccia della vicinanza del Padre di Gesù. Invece, ovunque Dio venga ufficialmente dislocato, in strutture organizzative e gerarchiche, fornite di criteri e procedure di identificazione e di esclusione, lì il modo d’essere di Gesù, culminante nel modo d’amare rivelato sulla croce e nella dinamica di liberazione della resurrezione, resta sconosciuto ed eluso.
Da questo punto di vista credo sia necessario tornare a ripensare a chi ci riferiamo con l’espressione “il popolo di Dio”. L’identificazione clericale della sua soggettività e dei suoi confini si è rivelata sempre più inattendibile e occorre prenderne definitivamente congedo. Esso non coincide con la chiesa visibile, formalizzata attraverso segni, pratiche, luoghi sacralizzati. Il popolo di Dio è originariamente e resta l’umanità intera, anzi l’intero creato: la comunità di tutti i viventi. Ma intanto, storicamente, giorno per giorno il popolo di Dio si dà in coloro che sono gli esclusi, i perseguitati, i ridotti al nulla. Nell’oppressione e nella sofferenza subita affiora il legame viscerale con il Padre. Tale legame nel contempo si conferma in tutti quelli il cui amore risponde realmente all’amore del Padre di Gesù. Questo è il nucleo reale della nascita storica del vero popolo di Dio. Come seppe vedere Mohandas K. Gandhi quando tradusse la parola harijan – che tradizionalmente significava “gli intoccabili”, cioè i rifiutati della società – appunto con l’espressione, qui quanto mai precisa, “il popolo di Dio” (cfr. Teoria e pratica della nonviolenza, Torino, Einaudi, 1996).
Questo popolo nasce nell’evento della nascita della comunità che si stabilisce tra quelli che subiscono il potere verticale e quelli che imparano a rifiutarlo, generando insieme un’azione che rimuove le barriere tra gli esseri umani. Allora il potere da verticale diventa orizzontale, da concentrato nelle mani di pochi diventa condiviso, spezzandosi come si spezza il pane affinché ognuno possa vivere da figlia o da figlio. Ma questo potere buono non è semplicemente democratico, è il frutto della trasformazione delle persone che si aprono all’amore del Padre e pertanto diventano capaci di sentire e di agire in modo totalmente umano.
Dio non interviene nella storia come gli dei dell’Iliade e dell’Odissea, ma suscita in noi con la sua prossimità continua, che non abbandona mai, la forza di amare nel modo che Gesù ha rivelato e vissuto sino alla croce e alla resurrezione. In quest’ottica non contano i calcoli che facciamo, le forme organizzative, gli sforzi della volontà, conta l’apertura reale all’amore del Padre, la purezza della scintilla d’amore che accogliamo in noi. Se è pura, se non è resa opaca ed effimera da riserve di qualsiasi genere, paure, brame di potenza, tentazioni di fuga, allora l’irrealtà dominante cede il passo alla realtà vera.


Attraversare l’abbandono
Si dirà però che questa lettura della relazione tra noi, Gesù e Dio appare completamente smentita proprio nel momento della crocifissione, che pure è il momento della piena adesione del figlio al Padre. A Gesù che subisce l’esperienza dell’estremo limite nel tradimento, nella tortura e nella morte senza tradire la volontà paterna, senza perdere la sua fedeltà, sembra toccare l’abbandono da parte del Padre, stando alla testimonianza del Vangelo di Matteo (27, 46). L’eventualità di un abbandono vero e proprio determinerebbe, già in sé, anche per un solo momento, la confutazione dell’intera testimonianza evangelica, né basterebbe alcun annuncio di resurrezione per ricucire questa lacerazione del senso della vita di Gesù e della sua relazione con il Padre.
Si tratta, a mio avviso, di riconoscere un altro significato nel risuonare delle parole del salmo, “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Sal 22,2), sulle labbra di Gesù in croce. Egli sta sperimentando, mentre invoca così il Padre sentito lontano, il fondo di quel sentimento di morte che già, come ho ricordato, era stato apertamente dichiarato in precedenza (Mt 26,38; Mc 15,34). Poiché Dio non interagisce visibilmente e tangibilmente con chi è aggredito dai colpi del male, colui che vi si trova esposto sino all’estremo sperimenta il sentimento di morte sino al culmine, che per chi crede in Dio come Padre non è certo la sua inesistenza, ma il suo abbandono. Nella vicenda di Gesù non si danno il possesso della relazione con questo Padre e la sua fruibilità a seconda delle esigenze, né una garanzia della vittoria sul male che sia così automatica da rendere superfluo l’affidamento. Gesù al contrario sperimenta ancora una volta, nel momento più oscuro, l’estrema povertà insita nella scelta di fidarsi completamente di Dio, lì dove il suo amore di uomo sembra rimasto solo e deve confermarsi in questa solitudine disperante. A ben vedere non è un passaggio estremo in quanto unico o speciale, è il passaggio estremo universale del rischio che chiunque deve affrontare se vuole smettere di inseguire un dio immaginario e fidarsi del Dio vivente. L’insegnamento derivante dal fatto che quelle parole desolate di Gesù sulla croce siano state pronunciate mostra che non sono la percezione oggettiva o la comprensione a suscitare il dinamismo dell’amore, semmai è l’amore a muovere le persone – in questo caso Gesù stesso – più profondamente di quanto si riesca a percepire e a comprendere. Di un Dio che, anziché risolvere tutto con l’azione diretta, attrae a conversione piena gli esseri umani si può sempre dubitare. Finché la conversione non ha luogo, neppure Dio ha luogo, tempo, credibilità per noi. Perciò il confronto con il sentimento di morte è ineludibile. Eppure questo Dio rimane il solo a cui ci si possa davvero affidare per libertà e per amore.
L’esperienza del limite ultimo – dove la morte s’impossessa anzitempo della vita a partire dal momento in cui sprofondiamo nel sentimento di abbandono, per cui tragico non è che l’Altro non esista, bensì che l’Altro ci abbia abbandonato – costituisce per ognuno la soglia attraverso la quale l’amore umano può portare a compimento la sua apertura all’Amore. Infatti pone limite al male soltanto chi, benché tentato dal sentimento di abbandono e da una situazione di desolazione estrema, riesce a confermare la relazione con Dio e con gli altri. Grazie a questo modo di rispondere alla crisi radicale della creatura umana, durante la quale vulnerabilità e forza di amare giungono insieme al culmine, Dio può realmente aiutarci. Egli non cambia o sostituisce i fatti, ma attrae le persone alla loro trasfigurazione per cui tutto in esse assume la stessa qualità del suo amore.
Quando la realtà divina, latente in quella che quotidianamente scambiamo per “realtà” nell’ottica dei nostri molteplici deliri, si fa spazio in noi e tra noi nella misura della nostra apertura, allora diventiamo, senza per questo essere tramutati in soggetti invulnerabili, una fonte di liberazione, di speranza, di giustizia, di consolazione per altri. Se desideriamo l’aiuto del Padre di Gesù, dunque del Padre di tutti, la condizione di sincerità di questo desiderio e il primo passo tipico della vera apertura stanno nel vedere se possiamo essere, nella nostra debolezza, di aiuto per qualcuno. Anzi, probabilmente stanno nel trovarsi orientati in questo modo prima ancora di aver capito che cosa stia accadendo. Da questo confine estremo della condizione umana sperimentata su se stessi come creazione ancora in atto si può sentire la vicinanza fedele di Dio come Padre materno: un Padre che è tale proprio perché non abbandona mai nessuno, per nessuna ragione.

Biografia

Roberto Mancini, nato a Macerata nel 1958, è professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università di Macerata, dove è anche Presidente del Corso di Laurea in Filosofia e Vice Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia.
Collabora con le riviste “Servitium”, “Ermeneutica Letteraria” e “Altreconomia”. Dirige la collana “Orizzonte Filosofico” dell’editrice Cittadella di Assisi. E’ membro del Comitato Scientifico della Scuola di Pace della Provincia di Lucca e della Scuola di Pace del Comune di Senigallia.
Oltre a circa 200 articoli e saggi brevi di etica, antropologia filosofica, teoria della verità e filosofia della religione, ha pubblicato i seguenti volumi:
- L’uomo quotidiano, Marietti 1985;
- Linguaggio e etica, Marietti 1988;
- Comunicazione come ecumene, Queriniana 1991;
- L’ascolto come radice: teoria dialogica della verità, Edizioni Scientifiche Italiane 1995;
- Esistenza e gratuità. Antropologia della condivisione, Cittadella 1996;
- Il dono del senso, Cittadella 1999;
- Il silenzio, via verso la vita, Qiqajon 2002;
- Senso e futuro della politica, Cittadella 2002;
- L’uomo e la comunità, Qiqajon 2004;
- Il senso del tempo e il suo mistero, Pazzini 2005;
- L’amore politico: sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Levinas, Cittadella 2005;
- Esistere nascendo: la filosofia maieutica di Maria Zambrano, Edizioni Città Aperta 2007;
- L’umanità promessa. Vivere il cristianesimo nell’età della globalizzazione, Pazzini 2008.
In collaborazione con altri autori ha inoltre scritto “Etiche della mondialità” (Cittadella 2007).
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.

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