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Dolore, paura, solitudine: le tre facce perverse della vestibolite vulvare

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22/05/2009

Le vostre lettere alla nostra redazione

I ricordi legati alla mia storia sono tanti e dolorosi da ripercorrere. Oggi ho 35 anni e alcuni mesi fa, dopo anni di dolore, mi è stata diagnosticata una vestibolite vulvare dovuta a un forte ipertono del muscolo elevatore dell’ano, una contrazione patologica che da anni mi causava anche cistiti ricorrenti e altri problemi.
I primi episodi di dolore si verificarono quando di anni ne avevo 25 e cercai ripetutamente di avere rapporti completi con il mio ragazzo di allora: da allora è iniziato un lungo calvario, con decine di visite di ogni genere, di diagnosi e terapie sbagliate. Ma fu quando il ginecologo mi prescrisse una cistoscopia, dopo l’ennesima cistite, che la mia storia conobbe il suo momento più drammatico. L’urologo non riuscì a inserire la sonda uretrale perché, disse, avevo l’uretra “troppo stretta”: per questo, secondo lui, sentivo troppo dolore! Così decise di fare prima l’esame in anestesia totale, e poi di effettuare un intervento di dilatazione dell’uretra.
Ricordo ancora il telo azzurro-verde che mi fecero mettere il giorno dell’esame, simile a una gonna, prima di farmi stendere sul lettino... Un telo che sembrava voler proteggere il mio corpo e che invece mi tradì, perché non mi protesse affatto dalle mani di quell’uomo! Ricordo il terrore e il dolore, lo spavento, le lacrime... lacrime come quelle che sgorgano dopo una violenza, da un corpo inerme, dolente, che chiede solo di essere rispettato, lacrime della paura, della vergogna.
E poi il ricovero in ospedale. La notte di attesa, da sola. La depilazione, fatta da un ragazzo che poteva avere la mia età, le sue mani addosso... L’anestesia, e quel lettino e quel dottore, e poi il risveglio... Ricordo solo un pianto disperato e un male bruciante, come milioni di spilli proprio lì. Poi poco per volta il dolore fisico passò, ma lasciò il posto a una grande prostrazione psicologica.
Il senso di tradimento, di paura, di trovarsi materialmente nelle mani di un’altra persona incapace di curarti, il sentirsi completamente inerme e indifesa, sono sensazioni che ti si cuciono addosso e non se ne vanno mai più. Quelle sensazioni restano così vivide che riemergono ancora oggi, quando mi trovo in situazioni simili: in quei momenti la paura, il terrore di provare dolore vanno oltre ogni rassicurazione del medico, fosse anche il più attento e gentile di questo mondo. La paura e il tentativo di chiudersi per difendersi sono riflessi che diventano automatici e difficilmente controllabili. La collaborazione che tuttora mi viene richiesta nei confronti delle cure, il “rilassamento” necessario per far sì che la terapia sia efficace, non è qualcosa che si può fare a comando. E tutto questo perché? Perché più di una volta il mio corpo, come probabilmente quello di molte altre donne come me, non è stato trattato come doveva.
Questo è un fatto gravissimo, soprattutto quando si tratta di alcune parti del corpo, dense di significati profondi, legati alla femminilità, alla maternità, alla fertilità, significati che si costruiscono fin dai primi anni di vita. Per questo il corpo di una bambina, che diventerà una donna, deve essere trattato con estrema cautela, attenzione e amore: cosa che purtroppo non sempre avviene. A soli due anni io subii una visita estremamente invasiva, un tampone uretrale, che probabilmente poteva essere evitato. Mi chiedo come sia possibile che chi lavora con il corpo dei pazienti non tenga conto anche della mente, del cuore e dell’anima di chi ha davanti, come se fossero due entità scollegate. E viceversa chi lavora con la mente delle persone, troppo spesso valuta patologie organiche come problemi psicologici, somatizzazioni o quant’altro. Mente e corpo sono invece strettamente collegati. Troppo spesso si liquidano e si trattano problemi fisici, spesso legati alla sessualità e alla genitalità, come questioni di “testa”.
Nel mio caso tutto ciò si è puntualmente verificato in più di un’occasione, ferendo profondamente la mia dignità di persona e di donna che soffriva. Spesso e volentieri i miei sintomi sono stati sottovalutati anche da “eccellenti” professori, così come da tante persone a me vicine, che non hanno dato abbastanza importanza ai sintomi che il mio corpo ha mandato per anni. Parlare di dolore fa male, fa paura: si rischia di mettere allo scoperto le proprie fragilità. Ma il dolore, fisico e psicologico, esiste. Chi lo nega ti fa sentire indegna di ascolto e di aiuto, bugiarda, a volte persino “cattiva”. E intanto il dolore resta, e aumenta. Per anni mi sono sentita sminuita, non creduta proprio dalle persone a me più vicine, purtroppo incapaci di stare a contatto con il dolore dell’altro e quindi ancor più con il proprio. Credo che il dolore possa essere “segreto” proprio perché troppo spesso viene negato da chi ci vive accanto: e questo fin dai primi anni di vita, durante i quali si avrebbe invece bisogno di essere “educati” anche al dolore, oltre che a tutto il resto, perché la sofferenza fa parte della vita. Non parlarne, non affrontarla non aiuta a cancellarla, anzi.
Queste sono le sensazioni che ho provato più spesso, e per questo credo sia stato fondamentale nella mia cura aver trovato chi ha finalmente dato un nome ai miei problemi, e individuato la giusta terapia.
Sono tante le immagini che mi porto dietro, i ricordi belli rovinati dai sintomi di una malattia che non aveva ancora un nome, e pertanto difficile da “giustificare”. Ricordo le estati al mare, spesso accompagnate da cure antibiotiche che mi impedivano di prendere il sole... Ma fosse stato solo quello, l’impedimento! Nella valigetta dei medicinali c’era sempre, inseparabile compagna di viaggio, la paura. Paura di “eccedere” in tutto, paura soprattutto di avere rapporti sessuali, sì, perché le mie cistiti – e ora so perché – capitavano sempre un paio di giorni dopo aver fatto l’amore, e per una ragazza di 25 anni non è bello, né facile. Con il passare del tempo, il sesso diventa qualcosa da cui difendersi perché causa di dolore. E poi c’è la paura di andare in bicicletta, di andare in palestra, di fare tutta una serie di cose che sono assolutamente normali, quando si è giovani. Ricordo due estati consecutive, in viaggio, di notte, con crisi acute di cistite, i dolori, come se fossero il prezzo da pagare per aver vissuto una giornata troppo piena. Weekend al mare o in montagna, weekend d’amore, di passione, rovinati, interrotti dal dolore, dalle corse al pronto soccorso o in farmacia, viaggi di ritorno con soste ai bordi delle autostrade a fare pipì sotto la pioggia, in preda a dolori lancinanti, dolori che non sai spiegare a chi è con te, dolori che ripetuti negli anni lasciano profonde ferite nel corpo e nella mente.
Nostalgia, tanta nostalgia dei momenti d’amore fisico, un amore che resta in parte inespresso a causa della paura e del dolore, un amore incompleto come il corpo di una donna che ha il terrore di esprimere la propria femminilità anche sessualmente, dato che questo ha sempre come conseguenza il dolore fisico, la delusione, il senso di inadeguatezza, la paura di perdere l’altro. Un corpo che desidera e che è desiderato, ma anche un corpo ferito che ha bisogno di tempo, di cure e di amore. Un corpo che vuole amare ed essere amato con i gesti e tante piccole attenzioni, perché in questi casi le parole servono a poco e il linguaggio del corpo è molto più eloquente... Un corpo che, lo ripeto ancora, chiede di essere finalmente rispettato. La rinuncia ad avere rapporti all’interno di una relazione, la manifestazione di una difficoltà, di una sofferenza all’interno di una famiglia, non sono stati mai, nel mio caso, modi per “attirare l’attenzione”, come mi sono sentita dire più di una volta, ma segnali di una sofferenza reale e profonda che chiedeva di essere riconosciuta.
Sono grata a me stessa per non essermi fermata alle parole e agli sguardi spesso crudeli di molti, per aver creduto io, per prima, al mio dolore, e per avergli dato ascolto. E sono grata alla vita che mi ha fatto incontrare chi ha smentito quelle parole e ha creduto a un dolore che resta segreto e “inspiegabile” solo agli occhi di chi ha troppa paura o incompetenza per vedere, ma che è evidente agli occhi di chi è capace di ascoltare davvero, anche col cuore.
E’ vero, ci sono ferite che non si rimarginano facilmente. Restano come cicatrici sulla pelle, per sempre. Segni di un dolore subito, segni che parlano della nostra storia. Segni che però col tempo cambiano aspetto, diventano piano piano sempre meno evidenti, meno ingombranti, meno “segreti”, se abbiamo il coraggio di scoprirli e di portarli alla luce del sole. Perché anche le peggiori ferite – con il tempo, le cure giuste e tanto amore – possono essere curate e lasciare finalmente spazio a una vita nuova.

Maristella G.

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