EN
Ricerca libera
Cerca nelle pubblicazioni scientifiche
per professionisti
Vai alla ricerca scientifica
Cerca nelle pubblicazioni divulgative
per pazienti
Vai alla ricerca divulgativa

Te solo aspetto

  • Condividi su
  • Condividi su Facebook
  • Condividi su Whatsapp
  • Condividi su Twitter
  • Condividi su Linkedin
26/08/2009

in: Francesco Petrarca, Canzoniere, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2006

Guida alla lettura

Come “Di me non pianger tu”, proposto alcune settimane fa, anche questo sonetto fu scritto da Petrarca dopo la morte di Laura, e appartiene dunque a quella parte del Canzoniere in cui prevale una visione spirituale della donna amata e perduta.
Il poeta, dopo aver cercato invano Laura in terra, con le ali del pensiero spicca il volo verso il paradiso: là, nel cerchio degli spiriti amanti, finalmente la ritrova. E ha luogo un dialogo, significativamente intessuto delle sole parole della donna, in cui accenti religiosi, temi stilnovistici e sentimenti profondamente umani si intrecciano in modo mirabile e formalmente perfetto.
Laura, morta in giovanissima età (...compie’ mia giornata innanzi sera), resa ancora più bella dalla condizione celeste, appare tuttavia meno altera, meno rigida e sfuggente che in vita, e con una nota di rimpianto per non aver saputo, o potuto, ricambiare l’amore di lui (...i’ so’ colei che ti die’ tanta guerra). E la santità di cui è soffusa non le impedisce quel sussurro di nostalgia che è il culmine emotivo della lirica (...te solo aspetto), e l’attesa di riavere un giorno il suo bel corpo (...il mio bel velo): un’attesa che se da un lato esprime la fiducia nelle promesse di Dio, dall’altro lascia trasparire l’umanissimo rimpianto della bellezza di un tempo, e della possibilità di vivere in pienezza anche l’amore terreno.
Un amore che, seppure misteriosamente sublimato, Laura e Francesco potranno però rivivere: «...in questa spera sarai ancor meco, se ‘l desir non erra». E qui, pur accettando l’interpretazione corrente della proposizione subordinata condizionale («se il mio desiderio non m’inganna»), ne proponiamo un’altra che ci pare altrettanto legittima e forse più adeguata ad esprimere il senso di un amore che può, e deve, resistere oltre la morte: «Se il tuo desiderio non ti porterà lontano da me», ossia: se non mi tradirai mai con nessuna altra donna, ma saprai attendere il momento in cui saremo di nuovo insieme. Una lettura che sembra incoraggiata anche dal doppio significato del verbo “errare”: sbagliare, ingannarsi, ma anche vagare senza meta, lontano dalla propria via.
I temi di una gioia che trascende la capacità di comprensione (...mio ben non cape in intelletto umano) e di un’emozione che quasi trattiene il poeta in paradiso (...poco mancò ch’io non rimasi in cielo) sono ricorrenti nei poeti del Dolce Stil Novo, ma rinnovati da un’ispirazione profonda e trasformati in immagini efficacissime della nostra comune speranza in una vita senza tramonto.
(Versione originale)

Levommi il mio pensier in parte ov’era
quella ch’io cerco e non ritrovo in terra:
ivi, fra lor che ‘l terzo cerchio serra,
la rividi più bella e meno altera.
Per man mi prese e disse: «In questa spera
sarai ancor meco, se ‘l desir non erra:
i’ so’ colei che ti die’ tanta guerra,
e compie’ mia giornata innanzi sera.
Mio ben non cape in intelletto umano:
te solo aspetto, e quel che tanto amasti
e là giuso è rimaso, il mio bel velo».
Deh, perché tacque et allargò la mano?
ch’al suon de’ detti sì pietosi e casti
poco mancò ch’io non rimasi in cielo.

(Versione in lingua corrente – A cura della nostra redazione)

Il mio pensiero si elevò laddove si trovava
colei che io cerco e non ritrovo sulla terra:
là, fra coloro che il terzo cerchio custodisce,
la rividi più bella e meno altera.
Mi prese per mano, e disse: «In questa sfera
un giorno sarai ancora con me, se il desiderio non m’inganna:
io sono colei che t’inflisse tante sofferenze,
e compii il mio giorno prima di sera.
La mia gioia non può essere compresa da mente umana:
te solo aspetto, e il mio bel corpo,
quello che tu tanto amasti e laggiù è rimasto».
Ahimè, perché tacque e mi lasciò la mano?
che al suono di parole così ricolme di grazia e di purezza,
poco mancò che io non rimasi in cielo.

Biografia

Francesco Petrarca nasce ad Arezzo nel 1304. Il padre, ser Pietro di ser Parenzo (soprannominato ser Petracco da cui, attraverso ulteriori trasformazioni di gusto latineggiante, il cognome del poeta), è notaio e guelfo bianco. Nel 1311 la famiglia si trasferisce nei pressi di Avignone, in Francia, al seguito della corte papale.
Malgrado le precoci inclinazioni letterarie, il padre avvia Francesco agli studi giuridici, prima a Montpellier e poi a Bologna. Nel 1326 il padre muore e il giovane, rientrato in Provenza per riprendere gli amati studi classici, incontra Laura e se ne innamora.
Verso il 1330, Petrarca entra al servizio del cardinale Giovanni Colonna. Appoggiato dall’illustre famiglia romana, compie numerosi viaggi in Europa, durante i quali approfondisce la propria formazione culturale classica e patristica, scoprendo e ricopiando codici antichi.
Nel 1337, tornato in Provenza, si ritira a Valchiusa (oggi Fontaine-de-Vaucluse), ove dimorerà, pur con numerose e lunghe interruzioni, sino al 1353, componendovi molte delle sue opere, in italiano e in latino. Nel 1340, il Senato di Roma lo cinge in Campidoglio della corona poetica. Fra il 1342 e il 1347 riprende i viaggi in Francia e in Italia, continuando a scrivere ma ricoprendo anche numerosi incarichi politici. Il 19 maggio del 1348 apprende a Parma della morte prematura di Laura, uccisa dalla peste così come gli amici Sennuccio del Bene, Giovanni Colonna, Francesco degli Albizzi.
Nel 1953 rientra definitivamente in Italia, presso la corte milanese dei Visconti, per i quali sarà ambasciatore a Venezia, Praga e Parigi. Questa intensa attività non gli impedisce però di godere di lunghi periodi di tranquillità, in città e nella campagna circostante, per attendere a nuovi lavori letterari.
Nel 1362, scoppiata nuovamente la peste, lascia Milano e si reca prima a Venezia, poi a Padova: ospite di Francesco da Carrara, signore della città, dimora spesso anche ad Arquà, sui colli Euganei, in una villetta che egli stesso descriverà come “piccola e graziosa, circondata da un uliveto e da una vigna”. E proprio ad Arquà muore improvvisamente nella notte fra il 18 e il 19 luglio del 1374: si narrerà che sia stato trovato sereno, con il capo chino su un volume di Virgilio, il poeta più amato.
Il “Canzoniere”, la sua opera più famosa, è una raccolta di 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali, selezionati da Petrarca stesso fra la sua vastissima produzione. La maggior parte delle composizioni è dedicata all’amore per Laura, e riflette una tensione straordinaria dal punto di vista umano, poetico e culturale: da un lato, infatti, la donna è cantata e vagheggiata con forti accenti sensuali, ispirati alla lirica italiana e provenzale dei secoli XII e XIII; dall’altro, specialmente dopo la morte della giovane, prevale di lei la visione stilnovistica e poi dantesca della “donna-angelo”, ricolma di ogni virtù, e per tanto fonte di conforto e tramite verso Dio.
Sullo stesso argomento per pazienti

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Il dolore e la cultura

Vuoi far parte della nostra community e non perderti gli aggiornamenti?

Iscriviti alla newsletter