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«Senza di voi, non posso gioire». Madrigali della lontananza

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01/10/2014

Tratto da:
Torquato Tasso, Rime – Libro I
in: Mario Oliveri e Terenzio Sarasso, Antologia della letteratura italiana, volume secondo, Paravia, Torino 1965, p. 413-414

Guida alla lettura

Questi quattro madrigali di Torquato Tasso, tratti dalle Rime e dedicati a Lucrezia Bendidio, si ispirano tutti al tema del poeta che, lontano dalla donna amata, non può trovare pace. I primi due risalgono al periodo compreso fra l’ottobre 1561 e il febbraio 1562, epoca in cui il Tasso si trovava a Padova per gli studi, mentre Lucrezia era tornata a Ferrara. Gli altri due, invece, furono composti dal marzo al giugno 1562, quando per la seconda volta il poeta tornò a Padova, dopo una breve visita a Ferrara.
Il dolente tema della lontananza attraversa esplicitamente tutte e quattro le composizioni («Lunge da voi, che siete il mio disire…»; «Lunge dal mio core…»; «Lunge da voi, ben mio…»; «Lunge da voi, mio core…»), e può produrre, in noi moderni, un senso di uniformità e monotonia. Si deve però tenere presente che, per il Tasso, il tema ispiratore non è mai visto come risorsa di originalità: quello che conta, per lui, è la possibilità di variazioni, la vibrazione affettiva collaterale che può scaturire dal leitmotiv iniziale.
Così, mentre nel primo madrigale il poeta si rivolge subito a Lucrezia e nello spazio di pochi versi rivela come l’unica gioia sia per lui il dialogo mentale con l’amata («‘l mio pensier fallace passa monti e campagne e mari e fiumi; e m’avvicina e sface al dolce foco de’ be’ vostri lumi»), nel secondo l’invocazione è innanzitutto rivolta ad Amore, e l’«infinito diletto» già espresso nella prima lirica, quasi come un malinconico struggimento («e ‘l languir sì mi piace »), è ora minacciato da una condizione sospesa fra la vita e la morte («pur mezzo son io tra morto e vivo, poi che del cor son privo »).
Gli ultimi due madrigali, simili per tono, lunghezza metrica e atmosfera psicologica, ci danno la misura dell’abilità tecnica del Tasso. La situazione emotiva è quella nota alla lirica di tutti i secoli: ma le parole, scelte con semplicità e collocate con sapiente disposizione musicale, risvegliano echi nuovi e diversi. Nel primo dei due («Lunge da voi, ben mio») il gioco letterario resta più scoperto e le sensazioni del poeta si disperdono in immagini astratte e di maniera («un’ombra mesta, un lagrimevol suono, una voce dolente»). Nel secondo («Lunge da voi, mio core») c’è un senso più autentico e concreto della lontananza, una voce più personale e riflessiva: e l’esclamazione conclusiva («Oh miseria infinita!») ha l’accorato accento della sincerità e del dolore.
Ancora una volta, le parole immortali di un grande scrittore danno – attraverso le immagini universali e, proprio per questo, tanto più vere della poesia – un’evidenza plastica alla sofferenza che tutti patiamo quando siamo lontani dalle persone amate. Pensiamo alla solitudine delle donne e degli uomini che hanno perso la fiducia negli affetti, che la fame e la guerra spinge lontano dai loro paesi, che la violenza strappa alla vita con cinismo brutale. Ancora una volta, in quelle parole riscopriamo il nostro dramma personale, e insieme la possibilità di un riscatto, perché la poesia, come tutte le arti, ci parla del lato nobile dell’uomo: un essere che già Sofocle definiva ambiguamente “deinós”, terribile nel bene e nel male, e perciò capace delle azioni peggiori ma anche di amore e bellezza.
Io non posso gioire
lunge da voi, che siete il mio desire;
ma ‘l mio pensier fallace
passa monti e campagne e mari e fiumi;
e m’avvicina e sface
al dolce foco de’ be’ vostri lumi;
e ‘l languir sì mi piace
ch’infinito diletto ho nel martire.

Come vivrò ne le mie pene, Amore,
sì lunge dal mio core,
se la dolce memoria non m’aita
di lei ch’è la mia vita?
Dolce memoria e spene,
imaginata vista e caro obietto,
voi siete il mio diletto
la mia vita e ‘l mio bene;
ma pur mezzo son io tra morto e vivo,
poi che del cor son privo.

Lunge da voi, ben mio,
non ho vita né core e non son io.
Non sono, ohimè!, non sono
quel ch’altra volta fui, ma un’ombra mesta,
un lagrimevol suono,
una voce dolente; e ciò mi resta
solo per vostro dono:
ma resta il male onde morir desio.

Lunge da voi, mio core,
mille volte m’uccide il mio dolore.
Perché la mia partita
mi tolse l’alma; e s’io ripenso in lei
mi ritoglie la vita,
e tutti sono morti i pensier miei.
Oh miseria infinita!
È quel felice ch’una volta more.

Biografia

Torquato Tasso, ultima grande voce poetica del Rinascimento italiano, nasce a Sorrento l’11 marzo 1544. La sua infanzia è cupa e tormentata: nel 1552, a soli otto anni, segue il padre Bernardo in esilio; quattro anni dopo, lo raggiunge la notizia della morte improvvisa della madre. Il dolore e le traversie lasceranno un solco profondo nella sua mente.
Nel 1557, dopo una breve parentesi a Bergamo, presso la famiglia paterna, raggiunge il padre a Urbino, dove fa la prima esperienza del raffinato ambiente di corte e viene per la prima volta a contatto con la cultura del suo tempo. Nel ’59 segue il padre a Venezia, e di lì passa a Padova, Bologna e ancora Padova: durante questi anni studia legge, filosofia ed eloquenza. Proprio a Padova compone e pubblica il primo poema, “Rinaldo” (1562), e scrive i primi versi d’amore per Lucrezia Bendidio e Laura Peperara. Negli ultimi mesi del ’65 viene assunto al servizio del cardinale Luigi d’Este, e prende dimora a Ferrara: qui, poeta e cavaliere festeggiato e ricercato da gentiluomini, dame e letterati, trascorre gli anni più intensi e felici della sua vita, caratterizzati da un lavoro fervido e sereno, e illuminati dalla speranza della gloria letteraria. Nel gennaio 1572 passa al servizio del duca Alfonso II, con uno stipendio ragguardevole per quei tempi e senza obblighi tali da turbare i suoi impegni letterari. Sono di quegli anni il dramma pastorale “Aminta”, rappresentata per la prima volta nel 1573, e la “Gerusalemme liberata”, terminata nel 1575.
Nella seconda metà del ‘75 questa stagione di fatiche letterarie e agi cortigiani si incrina per l’affacciarsi dello squilibrio psichico che accompagnerà lo scrittore fino alla morte. L’ansia del successo e il dubbio di non ottenerlo nella misura desiderata lo spingono a chiedere innumerevoli consigli e giudizi, letterari e religiosi, sulla “Gerusalemme liberata”: i pareri raccolti produrranno via via revisioni profonde e determineranno infine, nel 1593, la pubblicazione della “Gerusalemme conquistata”, che – a differenza del poema originario, ancora oggi letto e apprezzato – cadrà nell’oblio a causa del minore valore poetico.
I suoi scrupoli religiosi sono testimoniati dalle perplessità circa la propria ortodossia: nel giugno 1575 si fa esaminare dall’inquisitore di Bologna, due anni dopo da quello di Ferrara; assolto, mette in dubbio il valore dell’assoluzione. Crescono nel frattempo le manie di persecuzione. Nel 1577, mentre confida a Lucrezia d’Este i suoi tormenti, ha il sospetto di essere spiato da un servitore e gli si scaglia contro con un coltello. Viene rinchiuso nella prigione del Castello e poi nel convento di San Francesco, da cui fugge la notte del 27 luglio, per peregrinare attraverso l’Italia sino a raggiungere la sorella Cornelia, a cui appare vestito da pastore per annunciarle la propria morte. Solo quando la vede disperata, le rivela – novello e infelice Oreste – la propria identità. Da quel momento il suo dramma interiore precipita. Ritorna a Ferrara, poi si reca a Mantova, a Padova, a Urbino, ancora a Mantova, e infine a Torino.
Nel 1579 riappare inaspettatamente alla corte di Ferrara, mentre si celebrano le nozze del duca Alfonso II con Margherita Gonzaga. Nella confusione del momento, i duchi non gli prestano quelle attenzioni che egli vorrebbe: prorompe in invettive contro Alfonso, che non tollera l’offesa e lo fa rinchiudere, incatenato, nell’ospedale di Sant’Anna, dove rimarrà per sette anni, trattato più come un prigioniero che come un malato.
Mentre langue in Sant’Anna, escono le prime edizioni della “Gerusalemme liberata”: ma il poeta, assalito da incubi e allucinazioni («Ho udito strepiti spaventosi: e spesso negli orecchi ho sentito fischi, tintinni, campanelle e romore… e dormendo m’è paruto che un mi si buttasse addosso un cavallo»), non avverte le vivacissime dispute che il poema suscita. Poco per volta, però, il rigido trattamento che gli viene riservato si ammorbidisce: il poeta ottiene un alloggio più decente, vitto migliore, il permesso di ricevere amici e anche di uscire qualche volta, seppure non da solo. In questo periodo di relativa tranquillità, detta le limpide prose dei “Dialoghi” e alcune delle sue rime più intense e commoventi.
Nel luglio 1586 il principe di Mantova, Vincenzo Gonzaga, ottiene che il poeta venga affidato alla sua custodia. Scrive la tragedia “Torrismondo”. Ben presto, però, ricominciano nuove e più ansiose peregrinazioni: a Mantova, Bergamo, Roma, Napoli, dove scrive il “Monte Oliveto”, le “Sette giornate del mondo creato” e gli ultimi “Dialoghi”. Infine torna a Roma, sotto la protezione del cardinale Aldobrandini, ove detta le “Lacrime di Maria Vergine” e le “Lacrime di Cristo”. Nel 1595, corre voce di un’imminente incoronazione poetica in Campidoglio: ma il Tasso è ormai stanco e distaccato dal vecchio sogno di gloria. Ritiratosi infine nel convento di Sant’Onofrio sul Gianicolo, muore il 25 aprile 1595.
In epoca romantica, la vita di Torquato, con i suoi amori, le sue peripezie, la prigionia e la follia, assurse a simbolo del mito del poeta solitario e incompreso, che si consuma in una perpetua guerra con il mondo ostile. La critica positivistica ne sottolineò invece le miserie morali, le incoerenze, la scarsa dignità, oltre alla follia che ne aveva offuscato il genio. Scrive a questo proposito Natalino Sapegno: «Alla radice degli atteggiamenti contraddittori di una personalità profondamente sconvolta, delle sue vanità meschine come del suo altissimo desiderio di gloria, dei suoi vagheggiamenti idillici come del suo combattuto e pur sempre risorgente amore per la società cortigiana, delle sue fughe scontrose come degli umiliati ritorni e delle miserabili e petulanti richieste di protezione e d’aiuto, sta la ferma convinzione dell’umanista-poeta, che si sente depositario e dispensiere di gloria, investito fra gli uomini di un ufficio nobile e presso che divino. Nel Tasso il tipo del letterato, creato dalla società umanistica, svolgendosi nelle sue conseguenze estreme, diventa personaggio tragico; il poeta puro, chiuso nel mondo dei sogni e delle fantasie, inetto e restio alla vita pratica e ai rapporti sociali, tutto intento a vagheggiare una sensibilità squisita, che nell’isolamento diventa morbosa, proteso nello sforzo di costruirsi un’esistenza tutta sua, splendida ed esemplare, va a cozzare violentemente con la dura realtà e dallo scontro esce travolto» (Disegno storico della letteratura italiana, La Nuova Italia, 1973, p. 288).
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