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Sul sepolcro di Selvaggia

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27/07/2016

Tratto da:
Cino da Pistoia, Canzoni e sonetti
in: Mario Oliveri e Terenzio Sarasso, Antologia della letteratura italiana, volume primo, Paravia, Torino 1965, p. 140-141

Guida alla lettura

In questa vibrante lirica, Cino da Pistoia – illustre rappresentante del Dolce Stil Novo – si ritrova sul monte pistoiese della Sambuca, dove è sepolta l’amata Selvaggia. Il ricordo della sua virtù (“onestà”, tipico termine stilnovista per indicare la nobiltà dell’animo) è illuminato dal ricordo della sua bellezza perfetta (“adornezze conte”). Con il cuore commosso, il poeta chiede ad Amore di potere anch’egli morire, e riposare accanto al sepolcro di lei. E poiché non viene esaudito, grida angosciosamente il nome dell’amata nell’allontanarsi lungo l’alpestre cammino.
La morte della donna amata, in Cino, non ha lo stesso significato ontologico che ha in Dante: nell’Alighieri, anche e soprattutto dal cielo l’amata veglia sul poeta e ne orienta la vita morale; Cino non va oltre al dolore devastante per la fine di quell’amore, e in questa drammaticità senza luce si coglie l’impronta di Cavalcanti, l’aedo dell’amore disperato.
Lo stile di Cino è terso ed elegante, coerente con i dettami dello Stilnovo: la dolcezza del dettato riflette la purezza dell’amore. E soprattutto l’ultimo verso ha una notevole forza drammatica: in esso si percepiscono la profonda solitudine e l’acre rimpianto del poeta, privato ormai di ogni ragione di vita.
Dedichiamo il sonetto a tutti coloro che soffrono per un amore perduto, o per la mancanza di amore: quel sentimento centrale nella poesia del Due-Trecento e che ancora oggi sostiene, e a volte flagella, la nostre vite.
Io fui ’n su l’alto e ’n sul beato monte,
ove adorai baciando il santo sasso,
e caddi ’n su quella petra di lasso,
ove l’onesta pose la sua fronte,
e ch’ella chiuse d’ogni virtù il fonte
quel giorno, che di morte acerbo passo
fece la donna de lo mio cor, lasso,
già piena tutta d’adornezze conte.
Quivi chiamai a questa guisa Amore:
«Dolce mio Iddio, fa’ che qui mi traggia
la morte a sé, chè qui giace ’l mio core».
Ma poi che non m’intese ’l mio signore,
mi dipartii pur chiamando Selvaggia;
l’alpe passai con voce di dolore.

(Versione in lingua corrente – A cura della nostra redazione)

Mi recai sull’alto e beato monte ove onorai e baciai la santa lapide; e caddi di schianto su di essa, dove la mia nobilissima donna pose la fronte.
Quella tomba serrò la sorgente di ogni virtù il giorno in cui la donna del mio cuore, ahimè, ricolma di bellezze perfette, andò anzitempo incontro alla morte.
Così invocai Amore: «Dolce mio dio, fa’ che la morte qui mi attragga a sé, poiché qui giace il mio cuore».
Ma poiché il mio signore non mi ascoltò, me ne andai invocando Selvaggia; e la montagna attraversai gemendo di dolore.

Biografia

Cino dei Sigibuldi nacque da nobile famiglia a Pistoia, intorno al 1270. Studiò diritto a Bologna; tornato nella sua città, venne esiliato con la parte dei Guelfi Neri nel 1303: poté rientrare in patria solo tre anni dopo. Nel 1310 si recò a Roma al seguito del conte Luigi di Savoia per preparare l’incoronazione a imperatore di Arrigo VII. Fu maestro di diritto negli Studi di Bologna, Siena, Firenze, Perugia e Napoli. Nel 1332 tornò a Pistoia, ove ricoperse numerose cariche pubbliche e morì nel 1337.
Copiose sono le sue opere giuridiche: la più importante è la “Lectura in Codicem” (1314), nella quale, illustrando i primi nove libri del codice di Giustiniano, sostiene la superiorità del potere imperiale su quello papale – un tema scottante in quei tempi.
Amico di Dante, che nel “De vulgari eloquentia” lo considera il maggiore poeta italiano dell’amore, ebbe in comune con lui – oltre alla passione per la poesia – l’ardore per le lotte civili e la fiducia, ben presto delusa, nell’impresa di Arrigo VII.
Fu amico di Petrarca, con il quale restò per oltre dieci anni in calorosa corrispondenza epistolare. Ebbe molti amori, e Dante stesso gli rimproverò la mutabilità delle passioni, il che – secondo l’esigente poetica del Dolce Stil Novo – non poteva che ripercuotersi sulla sincerità della poesia; ma nel suo canzoniere domina comunque l’amore per Selvaggia, forse un “señhal” di gusto provenzale che adombra la ritrosia e la durezza di un cuore difficile da conquistare.
Se si includono anche le composizioni dubbie, il “corpus” di Cino si avvicina ai duecento testi: la maggior parte sono rime amorose, alcune politiche (due in morte di Arrigo VII), una in morte di Beatrice e una in morte di Dante.
I motivi fondamentali della poesia di Cino – spesso non esenti da un certo manierismo – sono il vagheggiamento dell’amata e la perfezione spirituale che ne deriva, il dolore tormentoso per la crudeltà di lei, l’angoscia per la sua morte, un’acre voluttà di solitudine; ma anche un desiderio ardente e sensuale. E questo contrasto fra anelito spirituale e fascino dei sensi preannuncia l’affanno del Petrarca, così ricco di umanità e poesia. Proprio per questo motivo, Cino è considerato il mediatore fra la splendente stagione dello Stilnovo e la nuova lirica del Trecento.
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