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La morte di Magone

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09/03/2016

Tratto da:
Francesco Petrarca, Africa, VI, 885-918
In: “Rime, Trionfi e poesie latine”, a cura di F. Neri, G. Martellotti, E. Bianchi, N. Sapegno, Ricciardi, 1951

Guida alla lettura

L’“Africa” di Francesco Petrarca è un poema epico scritto in latino e rimasto incompiuto. Ha per argomento la seconda guerra punica, dal momento in cui Scipione l’Africano sbarca a Cartagine, vince a Zama e viene infine onorato trionfalmente a Roma. Magone è il fratello minore di Annibale, morto per una ferita durante il rientro in patria.
Durante l’agonia, il giovane riflette dolorosamente sull’incertezza e la precarietà della vita, sulla vanità degli onori, sulla relatività delle cose umane, che solo l’imminenza della morte rende chiare ed evidenti. Nel racconto toccante del suo affanno è riconoscibile tutto lo stile di Petrarca, con la sua attenzione agli stati d’animo e alle pene interiori dei protagonisti: una caratteristica che capovolge lo statuto poetico del genere epico, facendo elegiacamente dei vinti i veri eroi della narrazione.
Ad alcuni critici, che gli rimproveravano di aver messo parole cristiane in bocca a un pagano, Petrarca ribattè che in quelle parole non c’era nulla di particolarmente “cristiano”, ma che tutto era, semmai, profondamente “umano”: di tutti, infatti, sono il cuore e la ragione, e di tutti è, in punto di morte, la capacità di rileggere la propria vita, di riconoscere i propri errori e di comprendere la caducità delle cose per cui, a volte, tanto si combatte.
Enrico Fenzi (Petrarca, Il Mulino, 2008, p. 47) osserva che «la fondamentale uguaglianza dell’animo umano è la grande base sulla quale Petrarca può costruire l’intero edificio della sua opera, ed è la chiave per il recupero dell’antico che egli consegna all’età dell’Umanesimo e del Rinascimento». In questo senso, Petrarca ci ricorda il commediografo latino Terenzio, che nell’“Heautontimorumenos” (Il punitore di se stesso) fa dire a Cremete: «Homo sum, nil humani a me alienum puto», «Sono un essere umano, non ritengo a me estraneo nulla di umano». I semi dell’Umanesimo erano già tutti lì, ma l’idea medievale di un’umanità cristiana “altra” rispetto a quella antica li aveva dispersi. Petrarca fu il primo a ritrovarli in tutta la loro fecondità e rese così possibile, in modo finalmente pieno e definitivo, quella “translatio studii” – il passaggio del sapere greco e romano nel mondo moderno – che per secoli i sapienti avevano cercato di realizzare.
Oggi Magone parla anche a noi, e ci mette in guardia dalle illusioni del cuore e dal dolore del rimpianto: se è vero che solo «la morte c’insegna quel che valgono i nostri beni», è altrettanto vero che tutti siamo chiamati a uno sforzo di discernimento già durante la vita, per dare ad essa una solida base etica e farne, ognuno nel proprio ambito di azione, un piccolo capolavoro.
A questo punto, mentre il giovane cartaginese si trovava in mezzo al mare, il dolore crescente della ferita e l’approssimarsi della dura morte lo incalza, ansante, con ardenti stimoli. Egli, vedendo avvicinarsi l’ora estrema della vita, incomincia:
«Ohimé! Quale termine è dato a un’alta fortuna! Come per i prosperi successi diventa cieca la mente! Ecco l’insania dei potenti: godere di una grandezza prossima al precipizio. Questo stato di cose soggiace a mille tempeste, e il fine di chi si è in alto levato è di precipitare. Ohimé, vacillante vetta dei grandi onori, speranza ingannatrice degli uomini, e vana gloria ornata di orpelli menzogneri! Oh, vita incerta, dedita a perpetua fatica! Oh, giorno della morte sempre certo ma non mai abbastanza previsto! Ohimé, sorte iniqua dell’uomo sulla terra! Tutti gli animali trovano riposo; l’uomo è inquieto per tutti gli anni, affretta ansioso il cammino verso la morte.
O morte, la migliore delle cose, tu sola sveli gli errori e dilegui i sogni della vita passata. Vedo ora, me misero, quante cose ho perseguito invano, quante fatiche mi sono imposto, che avrei potuto evitare. L’uomo, creatura mortale, si sforza di salire alle stelle, ma la morte c’insegna quel che valgono i nostri beni.
Che giovò portare le armi contro il potente Lazio e appiccare il fuoco alle sue case? Che giovò turbare i patti del vivere umano e riempire le città di tristi tumulti? E che vale aver costruito alti palazzi adorni d’oro, dalle mura di marmo, se per avverso fato ero destinato a perire, così, in mezzo al mare?
O fratello carissimo, quanta mole d’imprese volgi nel tuo cuore, ignaro, ohimé, del crudele destino, ignaro di me!».
Disse; e lo spirito libero s’innalza nell’aria, donde poteva vedere, distanti del pari, le città di Roma e di Cartagine. fortunato di partirsene prima del tempo per non vedere né i grandi eccidi né il disonore che attende le gloriose armi, né i dolori fraterni e suoi e della patria.

(versione originale in latino)

Hic postquam medio iuvenis stetit equore Poenus,
vulneris increscens dolor et vicinia durae
mortis agens stimulis ardentibus urget anhelum.
Ille videns propius supremi temporis horam,
incipit: «Heu qualis fortune terminus altae est!
Quam letis mens caeca bonis! furor ecce potentum:
precipiti gaudere loco. Status iste procellis
subiacet innumeris et finis ad alta levatis
est ruere. Heu tremulum magnorum culmen honorum,
spesque hominum fallax et inanis gloria fictis
illita blanditiis! heu vita incerta labori
dedita perpetuo, semperque heu certa nec unquam
sat mortis provisa dies! heu sortis iniquae
natus homo in terris! animalia cunta quiescunt;
irrequietus homo perque omnes anxius annos
ad mortem festinat iter. Mors, optima rerum,
tu retegis sola errores, et somnia vitae
discutis exactae. Video nunc quanta paravi,
ah miser, in cassum, subii quot sponte labores,
quos licuit transire mihi. Moriturus ad astra
scandere quaerit homo, sed Mors docet omnia quo sint
nostra loco. Latio quid profuit arma potenti,
quid tectis inferre faces? quid foedera mundi
turbare atque urbes tristi miscere tumultu?
Aurea marmoreis quidve alta palatia muris
erexisse iuvat, postquam sic sidere laevo
in pelago periturus eram? Carissime frater,
quanta paras animis? heu fati ignarus acerbi
ignarusque mei?». Dixit; tum liber in auras
spiritus egreditur, spatiis unde altior aequis
despiceret Romam simul et Carthaginis urbem,
ante diem felix abiens, ne summa videret
excidia et claris quod restat dedecus armis
fraternosque suosque simul patriaeque dolores.

Biografia

Francesco Petrarca nasce ad Arezzo nel 1304. Il padre, ser Pietro di ser Parenzo (soprannominato ser Petracco da cui, attraverso ulteriori trasformazioni di gusto latineggiante, il cognome del poeta), è notaio e guelfo bianco. Nel 1311 la famiglia si trasferisce nei pressi di Avignone, in Francia, al seguito della corte papale.
Malgrado le precoci inclinazioni letterarie, il padre avvia Francesco agli studi giuridici, prima a Montpellier e poi a Bologna. Nel 1326 il padre muore e il giovane, rientrato in Provenza per riprendere gli amati studi classici, incontra Laura e se ne innamora.
Verso il 1330, Petrarca entra al servizio del cardinale Giovanni Colonna. Appoggiato dall’illustre famiglia romana, compie numerosi viaggi in Europa, durante i quali approfondisce la propria formazione culturale classica e patristica, scoprendo e ricopiando codici antichi.
Nel 1337, tornato in Provenza, si ritira a Valchiusa (oggi Fontaine-de-Vaucluse), ove dimorerà, pur con numerose e lunghe interruzioni, sino al 1353, componendovi molte delle sue opere, in italiano e in latino. Nel 1340, il Senato di Roma lo cinge in Campidoglio della corona poetica. Fra il 1342 e il 1347 riprende i viaggi in Francia e in Italia, continuando a scrivere ma ricoprendo anche numerosi incarichi politici. Il 19 maggio del 1348 apprende a Parma della morte prematura di Laura, uccisa dalla peste così come gli amici Sennuccio del Bene, Giovanni Colonna, Francesco degli Albizzi.
Nel 1953 rientra definitivamente in Italia, presso la corte milanese dei Visconti, per i quali sarà ambasciatore a Venezia, Praga e Parigi. Questa intensa attività non gli impedisce però di godere di lunghi periodi di tranquillità, in città e nella campagna circostante, per attendere a nuovi lavori letterari.
Nel 1362, scoppiata nuovamente la peste, lascia Milano e si reca prima a Venezia, poi a Padova: ospite di Francesco da Carrara, signore della città, dimora spesso anche ad Arquà, sui colli Euganei, in una villetta che egli stesso descriverà come “piccola e graziosa, circondata da un uliveto e da una vigna”. E proprio ad Arquà muore improvvisamente nella notte fra il 18 e il 19 luglio del 1374: si narrerà che sia stato trovato sereno, con il capo chino su un volume di Virgilio, il poeta più amato.
Il “Canzoniere”, la sua opera più famosa, è una raccolta di 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali, selezionati da Petrarca stesso fra la sua vastissima produzione. La maggior parte delle composizioni è dedicata all’amore per Laura, e riflette una tensione straordinaria dal punto di vista umano, poetico e culturale: da un lato, infatti, la donna è cantata e vagheggiata con forti accenti sensuali, ispirati alla lirica italiana e provenzale dei secoli XII e XIII; dall’altro, specialmente dopo la morte della giovane, prevale di lei la visione stilnovistica e poi dantesca della “donna-angelo”, ricolma di ogni virtù, e per tanto fonte di conforto e tramite verso Dio.
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