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Come si accompagna un ammalato

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04/02/2009

Tratto da:
Bruno Chenu, Dio e l'uomo sofferente, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI), 2005, p. 63-68

Guida alla lettura

Come ci si deve comportare con un malato terminale? Che cosa si può fare in concreto per alleviare la solitudine e l’angoscia, al di là del tecnicismo pur necessario e provvidenziale dell’atto terapeutico? Quali sono i comportamenti da evitare assolutamente, per non aggravare la paura e il senso di impotenza? Bruno Chenu, sacerdote francese morto di tumore, offre alcune risposte con la semplicità e l’immediatezza di chi non scrive un trattato a partire da principi teorici, ma racconta la propria personale esperienza.
Il brano pone innanzitutto alcune fondamentali distinzioni: c’è un accompagnamento concreto, materiale, al quale tutti possiamo contribuire, e un accompagnamento spirituale, che dipende inevitabilmente dalle convinzioni di ciascuno. C’è un supporto medico – offerto in ospedale dai dottori, dalle infermiere, persino dai compagni di degenza – e un supporto amicale, che si esprime nelle relazioni quotidiane con chi ci ama e ha a cuore la nostra sorte.
In questi diversi contesti emergono gli atteggiamenti che fanno la differenza rispetto a un’assistenza magari efficiente, ma senza calore: trattare l’ammalato come una persona, per esempio continuando a chiamarlo per nome; non permettere che la malattia filtri e condizioni ogni aspetto della relazione; non far trasparire la propria personale angoscia; lasciar parlare l’amore, più che parlare di amore.
Su tutto domina la consapevolezza che la malattia ci conduce a capire che noi non siamo autosufficienti, che nessuno può bastare a se stesso, e che il nostro essere, in realtà, è “nelle mani di un altro”. Una consapevolezza che l’uomo di fede sente confermata sempre, anche nei momenti di salute e serenità, perché è da un Altro che sa di trarre il senso ultimo della propria esistenza: «Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?» (Matteo 6,27).
Una delle esperienze più positive che ho vissuto nel mio viaggio attraverso la prova è quella di vedermi attorniato, sostenuto da molti. Accompagnamento concreto, di presenza fisica si potrebbe dire, e accompagnamento spirituale, di preghiera promessa e senza dubbio realizzata. Tra me e la malattia, un certo numero di amici ha innalzato un muro di preghiera. Il che mi faceva dire che Dio si era stancato di così tante preghiere da concedermi una proroga.
Vorrei evocare due tipi di accompagnamento: medico e amicale.
a) Dal lato medico, voglio citare il mio specialista e le infermiere per tributare a lui e a loro l’omaggio che meritano. Ma insisterò soprattutto su un vicino di camera. Il mio dottore è stato estremamente attento al mio caso. È arrivato persino a telefonarmi una domenica mattina in comunità per dirmi di prendere uno sciroppo per incrementare un elemento del sangue. Soprattutto – e non era un privilegio personale – potevo telefonargli in clinica nei giorni normali e, in meno di un minuto, l’avevo in linea. Ho trovato questo straordinario. Le infermiere. Non erano tutte giovani e carine, ma bastava che mi avessero incontrato una volta che subito mi chiamavano per nome. Questo atteggiamento mi ha colpito. Durante i miei cicli di consolidamento della terapia, sono stato ricoverato qualche giorno. La prima volta ho condiviso la camera con un altro paziente che doveva essere operato alla colonna vertebrale. Un uomo di ottantadue anni, farmacista in pensione, sostenitore di Le Pen e di monsignor Lefebvre. L’ideale per andare d’accordo con me! Ebbene, vi posso assicurare che ci siamo capiti benissimo. Perché? Non certo perché condividessimo le stesse idee sul governo francese o sulla chiesa cattolica. Nemmeno perché avessimo in comune dei ricordi da ex-combattenti. Ma tutti e due cercavamo di vivere da cristiani. E quando siete sottoposti a una terapia o di fronte a un’operazione nelle quali rischiate la pelle, il resto non ha più molta importanza. Siete ricondotti a quel gesto elementare della fede che è l’umile convinzione che il vostro essere è nelle mani di un altro. Certo, non siamo andati a cercare gli argomenti conflittuali. Ma ci siamo raccontati a lungo le nostre vite. Ci siamo ritrovati al di là delle ideologie, delle preferenze e dei gusti. Eravamo due cristiani che si sostenevano nella prova, che si confortavano quando ce n’era bisogno.
b) L’accompagnamento amicale. È quello della famiglia, della comunità, degli amici. Il passaparola ha funzionato bene e la notizia del mio cancro ha ridestato dei rapporti. Persone che di solito non scrivevano hanno scritto. Altri telefonavano... Fa bene sentirsi attorniati. Ma non attorniati in modo qualunque. Vorrei sottolineare un dato: ho trascorso la maggior parte del tempo nella mia comunità, e mai vi sono stato considerato come un malato. In alcuni momenti ero certo obbligato a comportarmi come chi è spossato dalla terapia, ma nessuno mi ha mai fatto un’osservazione che potesse rinchiudermi maggiormente nella prova. Ho continuato ad assumere le mie responsabilità di superiore di comunità. Ho continuato a lavorare nella misura delle mie forze. Credo sia molto importante avere un rapporto naturale con chi è malato, considerarlo come una persona nel suo insieme, il cui problema di salute non deve interferire troppo nei rapporti. Non c’è nulla di più terribile per un malato che il leggere sul volto dell’altro l’angoscia che cerca di scongiurare. Per favore, non rincariamo la dose della gravità del male dell’altro. Ho avuto anch’io degli amici che mi sprofondavano nella paura invece di sostenermi nella fiducia. Non bisogna mai essere più pessimisti del malato stesso: sarebbe omissione di soccorso.
Vi riporto una pagina di Maurice Bellet:
«L’amore d’amicizia ha tre volti: la presenza, l’ospitalità, l’ascolto. I tre sono una cosa sola.
La presenza è semplicissima: visita, telefono; o anche far sapere per mezzo di qualcuno: io penso a te, a lei. In questo modo continuo a esistere per altri, vivo in loro. Così evito di essere circoscritto a me stesso, ridotto solo a me – e al luogo di dolore. L’ospitalità: sono stato meravigliosamente accolto, attorniato, curato.
L’ascolto. Ho sottomano il telefono. Basta alzare la cornetta, comporre un numero: qualcuno solleva il ricevitore, mi sente, a lui posso parlare con totale confidenza. E’ un’amica medico, alla quale racconto quanto mi preoccupa e chiedo consiglio. Posso chiamarla quando voglio, a tutte le ore. Sicurezza immensa questo medico del "foro interno", per così dire, consiglio confidenziale e privato rispetto a una macchina gigantesca di cure come l’ospedale!»
(M. Bellet, Il corpo alla prova, Servitium, Sotto il Monte, 2000, p. 25)
Un po’ più avanti nel suo libro, Maurice Bellet ha questa frase fulminante: «La parola che dice l’amore non è la parola che ne parla: è la parola che lo dona». L’essere stati accompagnati rende forse capaci di accompagnare a propria volta.

Biografia

Bruno Chenu (1942-2003), religioso della congregazione degli Agostiniani dell’Assunzione (noti come “Assunzionisti”), fu professore di Teologia all’Institut Catholique di Lione, caporedattore per la religione del quotidiano La Croix e copresidente del Gruppo di Dombes (che riunisce una quarantina di teologi cattolici e protestanti di lingua francese per il dialogo fra le diverse chiese cristiane).
Ammalato di tumore, morì due mesi dopo aver scritto “Dio e l’uomo sofferente”, in cui si interroga sulla presenza di Dio nel mistero del dolore e illustra con sereno realismo la sua esperienza della malattia.
Un’esperienza che, insieme con la fede e il limpido sguardo sulla vita, lasciò intatto il suo senso dell’umorismo, che il 28 agosto 2001 gli faceva scrivere ai fratelli e alle sorelle del Gruppo di Dombes: «Nel mese di maggio ho avuto quello che si chiama un “linfoma del testicolo”. Forma di cancro ben nota, perché è quella da cui è stato afflitto il ciclista Lance Armstrong. Quindi, aspettatevi di vedermi sulle strade del Tour de France il prossimo anno!» (Dio e l’uomo sofferente, p. 79-80).
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