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La morte di un innocente

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30/07/2008

Tratto da:
Albert Camus, La peste, Bompiani, Milano, 2005

Guida alla lettura

In questa pagina durissima e toccante, Albert Camus affronta il mistero della sofferenza umana nella sua declinazione più atroce e inaccettabile: la malattia e la morte dei bambini.
Intorno al capezzale della piccola vittima, torturata e infine uccisa dalla peste, si muovono tre figure simboliche e, al tempo stesso, profondamente vere: il dottor Castel, in apparenza distaccato, unicamente assorbito dal tentativo di trovare una cura per il morbo, ma ancora capace di commuoversi di fronte all’agonia del ragazzino; padre Paneloux, animato da una fede incrollabile, ma che stigmatizzerà cinicamente gli esperimenti terapeutici di Castel come inutili prolungamenti dell’agonia; e il dottor Rieux, filantropo austero e generoso, animato da una grande forza di compassione, ma incapace di accettare il senso religioso del dolore prospettatogli dal sacerdote.
Tre figure complesse, dunque, e di grande attualità (pensiamo solo al dibattito sull’accanimento terapeutico), che non ci permettono facili e comode identificazioni: ognuna con luci e ombre che emergono tanto più nette nel momento in cui lo scandalo per il dolore degli innocenti, sino ad allora “astrattamente” esperito, entra con concreta brutalità nella loro vita.
Lo scetticismo di Paneloux nei confronti della scienza non può che urtare Rieux, che crede soltanto nelle risorse limitate del progresso umano e al quale l’idea di accettare nella fede ciò che la ragione non può spiegare è del tutto estranea. Ma, al termine di un dialogo mirabile, e nonostante la profonda differenza delle loro prospettive ideali, i due uomini si riconosceranno uniti – “al di là delle bestemmie e delle preghiere” – nel lavoro a favore dei sofferenti.
Il ragazzo, uscito dal torpore, si rotolava convulsamente nelle lenzuola. Il dottor Castel e Tarrou dalle quattro della mattina gli stavano accanto, seguendo passo passo i progressi o le pause della malattia. A capo del letto, il corpo massiccio di Tarrou era un po’ curvo; ai piedi del letto, seduto vicino a Rieux, in piedi, Castel leggeva, con tutte le apparenze della calma, un vecchio libro. A poco a poco, via via che il giorno cresceva nella ex-aula scolastica, arrivavano gli altri. Paneloux si mise dall’altra parte del letto, addossato alla parete. Un’espressione dolorosa gli si leggeva sul volto, e la stanchezza di tutti quei giorni, in cui aveva pagato di persona, gli aveva tracciato rughe sulla fronte congestionata.
Il dottor Rieux stringeva con forza la sbarra del letto in cui gemeva il ragazzo: non lasciava con gli occhi il piccolo malato, che s’irrigidì all’improvviso e, coi denti di nuovo stretti, s’incavò un poco all’altezza della vita, aprendo lentamente le braccia e le gambe. Dal corpicino, nudo sotto la coperta militare, saliva un odore di lana e d’acre sudore. Il ragazzo si stese a poco a poco, ricondusse braccia e gambe verso il centro del letto e, sempre cieco e muto, sembrò respirare più in fretta. Rieux incontrò lo sguardo di Tarrou, che distolse gli occhi.
Di bambini, ne avevano ormai veduti morire: il terrore, da mesi, non sceglieva affatto; ma non avevano ancora seguito le loro sofferenze minuto per minuto, come stavano facendo dalla mattina. E, beninteso, il dolore inflitto a quegli innocenti non aveva mai finito di sembrargli quello che in verità era, ossia uno scandalo. Ma sino ad allora si erano scandalizzati astrattamente, in qualche modo: mai avevano guardato in faccia, così a lungo, l’agonia d’un innocente.
Proprio allora il ragazzo, come morso allo stomaco, si piegava di nuovo, con un flebile gemito. Restò incavato per lunghi attimi, scosso da brividi e da tremiti convulsi, come se la sua fragile carcassa piegasse sotto il vento furioso della peste e scricchiolasse sotto i ripetuti soffi della febbre. Passata la burrasca, si stese un poco, la febbre sembrò ritirarsi, e abbandonarlo, ansante, su un greto umido e avvelenato, dove il riposo ormai somigliava alla morte. Quando il flutto ardente lo raggiunse di nuovo, per la terza volta, e lo sollevò un poco, il ragazzo si accartocciò, si rifugiò in fondo al letto nello spavento della fiamma che lo bruciava e agitò follemente la testa, buttando via la coperta. Grosse lacrime, spuntando dalle palpebre infiammate, cominciarono a scorrere sul volto plumbeo, e alla fine della crisi, contraendo le gambe ossute e le braccia, la cui carne si era dissolta in quarantott’ore, il ragazzo prese, nel letto devastato, una grottesca posa di crocifisso...
Da un momento Castel aveva chiuso il libro e guardava il malato. Cominciò una frase, ma fu costretto a tossire per poterla terminare: la sua voce improvvisamente stonava:
«Non ha avuto la tregua mattutina, nevvero, Rieux?».
Rieux disse di no, ma che il ragazzo resisteva da più tempo che se fosse stato normale. Paneloux disse allora sordamente: «Se ha da morire, avrà sofferto più a lungo».
Rieux si voltò vivamente verso di lui e aprì la bocca senza parlare, ma tacque, fece uno sforzo visibile per dominarsi, e ricondusse lo sguardo sul ragazzo... Rieux, che di tanto in tanto gli prendeva il polso, senza necessità, d’altronde, e piuttosto per uscire dall’immobilità impotente in cui era, sentiva, chiudendo gli occhi, quell’agitazione unirsi al tumulto del proprio sangue. Si confondeva allora col ragazzo suppliziato e tentava di sostenerlo con tutta la sua forza ancora intatta. Ma riunite per un attimo, le pulsazioni dei due cuori discordavano, il ragazzo gli sfuggiva, e il suo sforzo cadeva nel vuoto. Lasciava l’esile polso per tornare al suo posto...
Il ragazzo, con gli occhi chiusi, sembrava calmarsi un poco. Le mani, divenute simili ad artigli, tormentavano adagio le sponde del letto; risalivano, grattavano la coperta presso le ginocchia, e all’improvviso il ragazzo piegò le gambe, si portò le cosce sul ventre, rimanendo immobile. Allora aprì gli occhi per la prima volta e guardò Rieux che si trovava davanti a lui. Nel cavo del volto ora rappreso in un’argilla grigia la bocca si aprì e quasi subito ne uscì un solo grido continuo, graduato appena dalla respirazione, che colmò immediatamente la sala d’una protesta monotona, discorde, e così poco umana che sembrava provenisse da tutti gli uomini in una volta. Rieux stringeva i denti e Tarrou si voltò da una parte. Rambert si avvicinò al letto, accanto a Castel che chiuse il libro, rimasto aperto sulle sue ginocchia. Paneloux guardò quella bocca infantile, insozzata dalla malattia, piena d’un grido di tutti gli evi; si lasciò scivolare in ginocchio e tutti trovarono naturale di sentirlo dire con voce un po’ soffocata ma distinta dietro il pianto anonimo che non cessava: «Mio Dio, salva questo ragazzo».
Ma il ragazzo continuava a gridare, e tutt’intorno a lui i malati si agitarono. Quello le cui esclamazioni non erano cessate, all’altro capo della stanza, precipitò il ritmo del suo lamento sino a farne, anche lui, un vero grido, mentre gli altri gemevano sempre più forte. Una marea di singulti traboccò nella sala, coprendo la preghiera di Paneloux, e Rieux, sempre aggrappato alla sbarra del letto, chiuse gli occhi, ubriaco di stanchezza e di disgusto.
Quando li riaprì, si trovò vicino Tarrou. «Bisogna che me ne vada – disse Rieux – Non posso più sopportarli».
Ma improvvisamente gli altri malati tacquero; il dottore riconobbe allora che il gridò del ragazzo era indebolito, che s’indeboliva ancora e che stava per finire. Intorno a lui i lamenti riprendevano, ma sordamente, e come un’eco lontana della lotta appena conclusa. Si era conclusa infatti. Castel era passato dall’altra parte del letto, e disse ch’era finita. Con la bocca aperta, ma muta, il ragazzo riposava nella buca delle coperte in disordine, rimpiccolito di colpo, con resti di lacrime sul viso. Avvicinatosi al letto, Paneloux fece i gesti della benedizione...
Rieux, voltandosi, gli buttò con violenza: «Questo qui, almeno, era innocente, lei lo sa bene!». Poi si voltò e passando le parte della sala prima di Paneloux, raggiunse il fondo del cortile scolastico. Sedette su una panca, tra gli alberelli polverosi, e si asciugò il sudore che ormai gli colava negli occhi...
«Perché avermi parlato con tanta collera? – disse una voce dietro di lui – Anche per me, lo spettacolo era insopportabile».
Rieux si voltò verso Paneloux: «È vero – disse – mi scusi. Ma la stanchezza fa impazzire. Ci sono ore, in questa città, che non sento se non la mia rivolta».
«Capisco – mormorò Paneloux – È rivoltante in quanto supera la nostra misura. Ma forse dobbiamo amare quello che non possiamo capire».
Rieux si alzò di scatto; guardava Paneloux con tutta la forza e la passione di cui era capace, e scuoteva la testa.
«No, Padre – disse – io mi faccio un’altra idea dell’amore; e mi rifiuterò sino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati».
Sul viso di Paneloux passò un’ombra di rivolta.
«Dottore – fece con tristezza – ora ho capito quello che chiamano la grazia».
Ma Rieux si era di nuovo lasciato andare sulla panca. Dal fondo della sua ritornata stanchezza, rispose più dolcemente:
«È quello che non ho, lo so bene. Ma non voglio discuterne con lei. Noi lavoriamo insieme per qualcosa che riunisce al di là delle bestemmie e delle preghiere. Questo solo è importante».
Paneloux sedette vicino a Rieux, aveva un’aria commossa.
«Sì – disse – sì, anche lei lavora per la salvezza dell’uomo».
Rieux tentava di sorridere.
«La salvezza dell’uomo è un’espressione troppo grande per me. Io non vado così lontano. La sua salute m’interessa, prima di tutto la sua salute... Quello che odio, è la morte e il male, lei lo sa. E che lei lo voglia o no, noi siamo insieme per sopportarli e combatterli».

Biografia

Nato in Algeria nel 1913, Premio Nobel per la letteratura nel 1957, Albert Camus è considerato uno dei padri dell’esistenzialismo ateo novecentesco accanto a Jean-Paul Sartre.
Secondo Camus, la ricerca di un’autentica comunione fra gli esseri umani è resa impossibile dall’assurdo che incombe sull’esistenza. Il solo legame possibile sembra essere costituito dal rendersi consapevoli di questa situazione e dal cercare di superarla nella solidarietà: anche se certe esperienze estreme, come la guerra o la dittatura, sembrano non lasciare speranze.
Questa fede nella solidarietà si esprimerà compiutamente nel romanzo più famoso, “La peste”: gli uomini, se uniti da ideali positivi perseguiti con forza e determinazione, seppure nella consapevolezza realistica dei propri limiti, possono fronteggiare il male e il dolore. Ma senza mai abbassare la guardia: dobbiamo sempre rimanere vigili, nel caso in cui «la peste torni ad inviare i suoi ratti». L’abbandono del pessimismo estremo lo porterà, negli anni Cinquanta, alla rottura con Sartre.
Nel 1960 muore in Francia, in un incidente automobilistico, insieme con l’editore delle sue opere, Michel Gallimard.
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