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Le relazioni umane

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28/01/2009

in: Natalia Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi, Torino, 2005

Guida alla lettura

La qualità e la motivazione dei rapporti umani si devono riscoprire ogni giorno: è il messaggio centrale di questa pagina profonda e sofferta di Natalia Ginzburg, una delle scrittrici più significative del Novecento italiano.
Una riscoperta che si basa sulla consapevolezza che nessuno, su questa terra, dovrebbe essere servo o dominatore, perché tutti siamo chiamati a misurarci, prima o poi, con la finitezza dei nostri giorni. Una riscoperta che diviene urgente soprattutto quando l’empatia che ci sembra di provare per gli altri inizia a scivolare sul piano inclinato dell’abitudine, del compiacimento, del ruolo: allora può non essere più capacità di vedere l’altro e com-patire con lui, ma l’espressione di un malcelato amor proprio, di un ideale di “bontà” che impercettibilmente ci riconduce a rannicchiarci “gelati sul buio del nostro cuore”.
E’ una dinamica sempre possibile, soprattutto in chi – per necessità familiare, volontariato, o scelta professionale – svolga compiti di aiuto: verso gli ammalati, i genitori anziani, i poveri. Si tratta allora di ricondurre il nostro cuore alle radici vere ed essenziali dell’amore, che è fatto di solidarietà nell’oggi, in vista di un destino comune.
E adesso siamo veramente adulti, pensiamo, e ci sentiamo stupiti che essere adulti sia questo, non davvero tutto quello che da ragazzi avevamo creduto, non davvero la sicurezza di sé, non davvero un sereno possesso di tutte le cose della terra. Siamo adulti perché abbiamo alle spalle la presenza muta delle persone morte, a cui chiediamo un giudizio sul nostro comportamento attuale, a cui chiediamo perdono delle passate offese: vorremmo strappare dal nostro passato tante nostre parole crudeli, tanti gesti crudeli che abbiamo compiuto quando pure temevamo la morte ma non sapevamo, non avevamo capito com’era irreparabile, senza rimedio la morte: siamo adulti per tutte le mute risposte, per tutto il muto perdono dei morti che portiamo dentro di noi.
Siamo adulti per quel breve momento che un giorno ci è toccato di vivere, quando abbiamo guardato come per l’ultima volta tutte le cose della terra, e abbiamo rinunziato a possederle; le abbiamo restituite alla volontà di Dio: e d’un tratto le cose della terra ci sono apparse al loro giusto posto sotto il cielo, e così anche gli esseri umani, e noi stessi sospesi a guardare nell’unico posto giusto che ci sia dato: esseri umani, cose e memorie, tutto ci è apparso al suo posto giusto sotto il cielo. In quel breve momento abbiamo trovato un equilibrio alla nostra vita oscillante: e ci sembra che potremo sempre ritrovare quel momento segreto, ricercare là le parole per il nostro mestiere, le nostre parole per il prossimo; guardare il prossimo con uno sguardo sempre giusto e libero, non lo sguardo timoroso e sprezzante di chi sempre si chiede, in presenza del prossimo, se sarà suo padrone o suo servo. Noi tutta la vita non abbiamo saputo essere che padroni o servi: ma in quel nostro momento segreto, in quel momento di pieno equilibrio, abbiamo saputo che non c’è vera padronanza né vera servitù sulla terra. Così adesso, tornando a quel nostro momento segreto, cercheremo negli altri se già è toccato loro di vivere un momento identico, o se ancora ne sono lontani: è questo che importa sapere. Nella vita d’un essere umano, è il momento più alto: ed è necessario che stiamo con gli altri tenendo gli occhi al momento più alto del loro destino.
Con meraviglia, ci accorgiamo che adulti non abbiamo perduto la nostra antica timidezza di fronte al prossimo: la vita non ci ha per niente aiutato a liberarci della timidezza. Siamo ancora timidi. Soltanto, non ce ne importa: ci sembra d’esserci conquistato il diritto d’essere timidi: siamo timidi senza timidezza: arditamente timidi. Timidamente cerchiamo le parole giuste in noi. Ci rallegriamo tanto di trovarle con timidezza ma quasi senza fatica, ci rallegriamo d’avere così tante parole in noi, così tante parole per il prossimo, che siamo come ubriacati di facilità, di naturalezza.
E la storia dei rapporti umani non è mai finita in noi: perché a poco a poco succede che ci diventano fin troppo facili; fin troppo naturali e spontanei i rapporti umani: così spontanei, così senza fatica che non sono più ricchezza, né scoperta, né scelta: ma solo abitudine e compiacimento, ubriacamento di naturalezza. Noi crediamo sempre di poter tornare a quel nostro momento segreto, di poter sempre attingerci giuste parole: ma non è vero che ci possiamo sempre tornare, tante volte i nostri sono falsi ritorni: accendiamo di falsa luce i nostri occhi, simuliamo sollecitudine e calore al prossimo e siamo in realtà di nuovo contratti, rannicchiati e gelati sul buio del nostro cuore. I rapporti umani si devono riscoprire e riinventare ogni giorno. Ci dobbiamo sempre ricordare che ogni specie d’incontro con il prossimo, è un’azione umana e dunque è sempre male o bene, verità o menzogna, carità o peccato.

Biografia

Natalia Levi Ginzburg nasce a Palermo nel 1916. Il padre, Giuseppe Levi, è un illustre scienziato ebreo di origine triestina che, negli anni Venti, assume l’incarico di direttore dell’Istituto di Anatomia Umana di Torino (ove si formeranno, fra gli altri, Salvador Luria, Rita Levi-Montalcini e Renato Dulbecco).
Natalia si dedica presto alla scrittura. Nel 1933 pubblica il suo primo racconto, “I bambini”, e nel 1938 sposa Leone Ginzburg, col cui cognome firmerà in seguito tutte le sue opere. In quegli anni stringe legami con gli intellettuali della casa editrice Einaudi.
Nel 1938, il padre e i fratelli vengono processati con l’accusa di antifascismo. Nel 1940 segue il marito, mandato al confino in Abruzzo. Nel febbraio del 1944, in seguito alla morte violenta del marito in un carcere di Roma, Natalia ritorna a Torino e al termine della Seconda guerra mondiale comincia a lavorare per la casa editrice Einaudi. Nel 1947 esce il suo secondo romanzo “È stato così”, che vince il premio letterario “Tempo”.
Nel 1950 sposa Gabriele Baldini, docente di letteratura inglese e direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Londra. Inizia per lei un periodo assai fecondo di produzione letteraria, prevalentemente orientata sui temi della memoria e dell’indagine psicologica.
Nel 1962 esce la raccolta di saggi “Le piccole virtù”, e nel 1963 vince il premio Strega con “Lessico famigliare”, che viene accolto da un forte consenso di critica e di pubblico.
Nel 1969 il marito muore e la scrittrice si dedica sempre più alla narrativa. Negli anni settanta escono i volumi “Mai devi domandarmi” (1970) e “Vita immaginaria” (1974). In seguito traduce “La strada di Swann” di Marcel Proust e scrive altri romanzi e racconti, centrati sui temi del microcosmo familiare: “Caro Michele” (1973), “Famiglia” (1977), “La città e la casa” (1984) e “La famiglia Manzoni” (1983).
Muore a Roma nel 1991.
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