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La vera solitudine di chi sta per morire

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29/07/2009

Tratto da:
Marie de Hennezel, La morte amica, RCS Libri, Milano, 2007

Guida alla lettura

«Se la malattia è un nemico da combattere, la morte invece non lo è». Questa frase di Marie de Hennezel riassume tutta la filosofia che anima da anni il suo impegno nel campo delle cure palliative: forme di assistenza poste in atto quando la guarigione è ormai impossibile, e che servono a lenire il più possibile la sofferenza fisica, psichica e spirituale dei malati, accompagnandoli con empatia e umanità in quella fase della vita in cui “non possono più fare niente, tranne esserci”.
Come spiega l’autrice stessa in un passo del suo libro, «è necessario che l’angoscia, la disperazione, il dolore possano essere espressi e a volte gridati. Intorno al moribondo c’è troppo spesso negli ospedali una tendenza a impedire qualsiasi espressione emotiva e si fa il possibile affinché il moribondo faccia il morto... Lo si avvolge nel silenzio, se non nella menzogna, proteggendo i vivi dalla voce che potrebbe infrangere quel muro gridando: “Ho paura, sto per morire, sto soffrendo”. Troppo spesso quella voce viene soffocata, perché non sopportiamo di non poter fare niente. Ma chi ci chiede di fare qualcosa? Chi sta per morire ci chiede forse di impedirgli di morire? Non ci chiede invece di poter sfogare dolore e paura, di poter mandare il suo grido?».
“La morte amica” narra con sobrietà le storie di questi malati e il modo personalissimo in cui ciascuno di loro – anche grazie al lavoro attento di medici, infermiere, volontari – riesce a dare un senso alla propria morte senza farsene travolgere, continuando ad amare e accettando di essere amato. Accompagnando queste vicende di dolore e riscatto, Marie de Hennezel scopre come risorse insospettate dormano talora “nei sotterranei dell’essere”, riconosce che a volte “la felicità arriva senza avvertire, anche là dove imperversa la malattia”, ma prova anche il dolore di non poter condividere certe sofferenze, “perché ci sono livelli di disperazione così profondi che non possono essere spartiti”.
Dedichiamo questo brano profondo e delicato a tutti coloro che si occupano di cure palliative e dell’accompagnamento dei morenti.
Marie-Hélène, una giovane donna molto dolce e tranquilla, che svolge con grazia le sue mansioni di sorvegliante, mi segnala l’arrivo di una nuova malata: una donna di settant’anni, in piena confusione mentale, colpita da un cancro dell’utero, con metastasi multiple, così agitata e ansiosa che al suo letto sono state messe le sponde. Si teme, mi dice, che le scavalchi. Bisogna quindi prevedere una presenza costante al suo fianco. Per il momento sua figlia, che l’ha accompagnata, si trova al suo capezzale. Sembra anche lei piuttosto turbata.
Il tempo di posare la borsa nel mio ufficio, di infilarmi il camice bianco, ed eccomi sulla soglia della stanza 775. Mi concedo sempre un momento rapidissimo ma essenziale di raccoglimento prima di entrare nella stanza di un nuovo malato. Ogni incontro, lo so, è una nuova avventura. Ma il contatto con un essere che si prepara a morire impone un’attenzione e un rispetto particolari. Quella persona, non siamo mai sicuri di rivederla.
Sul letto intravedo un corpo flaccido e ansimante, scosso da movimenti bruschi e agitati, un viso disfatto, occhi smarriti, capelli bianchi piuttosto lunghi e in disordine. Questa donna ispira una gran pena. Alla sua destra, in piedi, c’è sua figlia visibilmente presa dallo sconforto davanti a un simile spettacolo, che spia con ansia ogni movimento della madre. A sinistra del letto c’è Simone, l’infermiera ausiliaria, calma e sorridente, piccola luce rassicurante in questa visione infernale. Marcelle, la nostra malata, è un’ex operaia, una donna forte e coraggiosa che ha lottato per vivere e allevare i figli. Oggi pronuncia frasi sconnesse, sbracciandosi e tentando disperatamente di scavalcare le sponde del letto. Sua figlia e Simone la trattengono a stento.
Nel momento in cui mi avvicino al letto, sento, in mezzo a un fiotto di parole prive di senso, la parola “morire”. Lanciata, quella parola rimbalza più volte come un oggetto incongruo gettato nel mezzo di un torrente impazzito. E ogni volta che sente la parola temuta, la figlia di Marcelle si spaventa a sua volta e supplica la madre di tacere: «Non dire così, mamma, calmati, andiamo, sei qui per farti curare e per guarire!».
In risposta a quel discorso falsamente rassicurante, l’agitazione di Marcelle aumenta. Simone mi guarda. Sento che vuole intervenire, e la incoraggio con un sorriso. Suggerisce allora con delicatezza ma con fermezza alla figlia di uscire dalla stanza e di lasciarci un momento sole con sua madre. Quest’ultima, una volta uscita la figlia, si gira verso l’ausiliaria china verso di lei, in quell’atteggiamento di tenera attenzione che dà tanta fiducia ai malati. Assisto cosi a un tete-à-tete silenzioso in cui, con gli occhi fissi in quelli di Simone, la donna sembra supplicare: “Voglio che mi diciate la verità”. Infatti, con un tono chiaro e deciso, in contrasto con i discorsi confusi fatti fino a quel momento, Marcelle guarda Simone e dichiara: «Sto per morire». Al che Simone prende la malata fra le braccia e le risponde teneramente: «Siamo qui per accompagnarla fino alla fine!».
Niente parole falsamente consolatorie, niente fuga, niente agitazione. L’ausiliaria si è limitata a prendere atto di quanto le diceva la donna, assicurandole con l’intensità della sua attenzione e la sua presenza che non sarebbe stata sola nel momento supremo.
Allora, con nostra grande sorpresa, Marcelle si è raddrizzata da sola nel letto, e appena sistemata comodamente sui cuscini, con una sorta di autorità interiore, come se avesse davvero ritrovato il proprio equilibrio e la propria lucidità, ha chiesto di far entrare sua figlia: la quale, logicamente stupita di vedere la madre finalmente calma, si è avvicinata in preda all’ansia.
«Sto per morire», ripete Marcelle con voce debole ma tranquilla.
«Mamma, non dire cosi! Non ti vergogni?».
Di fronte allo sgomento di quella figlia visibilmente così poco preparata a separarsi dalla madre e al peso che quello sgomento comporta per colei che tenta con tanto coraggio di affrontare la morte, mi avvicino a mia volta.
«La sua mamma ci sta dicendo ciò che sente. Dobbiamo ascoltarla e lasciare che ci dica di che cosa ha bisogno. E’ solo così che lei può aiutarla!».
Alla figlia che ora piange silenziosamente al suo fianco, Marcelle detta allora le ultime volontà. Vuole vedere tutti i suoi figli, i nipoti, vuole dare le ultime istruzioni e salutare. Sentiamo che è tornata padrona di sé, una donna forte, e che è importante che lo rimanga fino alla fine. E’ questo, probabilmente, il suo modo di morire con dignità.
Con discrezione, io e Simone lasciamo la stanza, mentre la nostra malata mette a punto con la figlia i particolari di qualcosa che assomiglia molto a una “cerimonia di addio”. «Simone, sei stata proprio straordinaria, hai detto la parola giusta e l’effetto è stato quasi miracoloso!» le dico con un gesto affettuoso.
Simone mi piace molto. Con i suoi occhioni azzurri, chiarissimi, e la sua voce cantilenante, questa donnina ci porta molta allegria e molta vitalità. Eppure ha avuto la sua parte di sofferenza e so che non ha la vita facile, poiché alleva i suoi figli da sola. E’ forse questa gioia di vivere spontanea, in una persona che conosce la tribolazione, che commuove tanto in lei. Un giorno, quando le ho chiesto che cosa la spingesse a curare persone così inferme e degradate nel fisico, mi ha risposto semplicemente: «Mi dico che potrebbero essere mio padre o mia madre. E faccio ciò che farei per loro o ciò che vorrei si facesse per me, se fossi al loro posto». In uno slancio di tenerezza, abbraccio Simone che con tanta semplicità ha saputo tirar fuori quella donna dall’abisso in cui si dibatteva.
Ancora una volta ne siamo stati testimoni: la solitudine peggiore per un moribondo è non poter annunciare ai suoi cari che sta per morire. Sentendo venire la morte, chi non ne può parlare, né condividere con gli altri quello che gli ispira la prossimità di quel momento supremo, spesso non ha altra via d’uscita che la confusione mentale, il delirio, o addirittura il dolore, che almeno consente di parlare di qualcosa.
L’abbiamo constatato spesso: il moribondo sa. Ha soltanto bisogno che lo si aiuti a dire ciò che sa. Perché gli è cosi difficile esprimerlo? Non è forse la percezione dell’angoscia di chi lo circonda che gli impedisce di parlare e lo induce a proteggere gli altri? Quello che abbiamo appena vissuto con Marcelle ci conferma che chi può parlare in modo diretto annunciando che sta per morire, non subisce la propria morte, riesce a viverla da protagonista. Allora si riscuote e rivela una forza interiore a volte insospettata.

Biografia

Marie de Hennezel è nata a Lione nel 1946. E’ psicologa e psicoterapeuta, e da molto tempo si occupa di cure palliative. Incaricata del Ministero della Sanità francese per la diffusione di queste cure, è autrice di due rapporti ministeriali sull’accompagnamento delle persone in fin di vita. Oltre all’ascolto empatico e al supporto psicologico, pratica con i suoi pazienti una disciplina nota come “aptonomia”, che studia il contatto tattile affettivo.
Fondata oltre cinquant’anni fa da un medico olandese, Franz Veldman, e ancora poco nota in Italia, l’aptonomia insegna a mettersi in relazione con gli altri esseri umani attraverso il tatto. Questa tecnica fu a lungo applicata nel rapporto fra genitori e figli dal concepimento alla nascita, e nel periodo del puerperio. Da alcuni anni è utilizzata anche con i morenti, per rispondere ai loro bisogni emotivi e affettivi.
Spiega la stessa de Hennezel nel libro “La morte amica”: «Forse può sembrare ridicolo seguire un corso di formazione per sviluppare una facoltà del genere. Purtroppo, il mondo nel quale siamo tutti cresciuti e continuiamo a muoverci non favorisce il contatto affettivo spontaneo tra esseri umani. Certo, tocchiamo gli altri, ma con un’intenzione erotica. Oppure in un contesto oggettivo, come nell’universo medico, dove si maneggiano “corpi-oggetto”. Ci si dimentica di quello che può sentire la “persona”. E’ quindi importante sensibilizzare i professionisti della salute a una dimensione dell’approccio umano che comprenda l’incontro tattile... Si cura un piede, una gamba, un polmone, un seno, come un qualcosa di distinto, o si cura forse la persona che soffre in questo o quel punto del corpo ed esprime tale sofferenza con il suo modo personale di essere? Sappiamo in quale misura la qualità di una presenza e il grado di attenzione possano cambiare il modo in cui qualsiasi intervento medico, anche il più aggressivo, viene recepito dai malati... In un reparto di cure palliative, il senso del contatto è uno dei valori positivi della terapia... L’approccio tattile permette ai malati di sentirsi integri e pienamente vivi. Come se si avvolgesse la pelle dolorante di un corpo moribondo con una seconda pelle, più delicata... Una pelle psichica, una pelle dell’anima».
Nonostante il suo quotidiano impegno al fianco di chi affronta la morte, Marie rifugge da ogni idealismo compiaciuto e non ha timore di parlare con grande onestà etica e intellettuale di quello che chiama il suo “assillo segreto”: la sofferenza ha un senso?
Nel 2008 ha pubblicato “Il calore del cuore impedisce al corpo di invecchiare” e “Prendersi cura degli altri. Pazienti, medici, infermieri e la sfida della malattia”, editi entrambi da Rizzoli.
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