EN
Ricerca libera
Cerca nelle pubblicazioni scientifiche
per professionisti
Vai alla ricerca scientifica
Cerca nelle pubblicazioni divulgative
per pazienti
Vai alla ricerca divulgativa

Il tempo che muore – Prima parte

  • Condividi su
  • Condividi su Facebook
  • Condividi su Whatsapp
  • Condividi su Twitter
  • Condividi su Linkedin
12/05/2010

Luciano Manicardi
Monaco di Bose

Testo della relazione tenuta al Corso di formazione per pastori e diaconi protestanti sul tema "Temps, vie et ministère: assumer ou subir", Bose, 28 febbraio - 5 marzo 2010

Guida alla lettura

Luciano Manicardi, monaco di Bose, ci offre una densa riflessione (di cui pubblichiamo oggi la prima parte) sul significato esistenziale e spirituale della morte, e sulle risposte che possiamo elaborare perché essa sia non un evento puramente biologico, da subire nell’angoscia e nella solitudine, ma il compimento di tutta la nostra esistenza e, per chi crede, un momento di verità di fronte a Dio.
La nostra società oscilla fra la rimozione e la spettacolarizzazione della morte, due atteggiamenti che in realtà concorrono alla sua esorcizzazione. Tuttavia la morte è il “problema” per eccellenza della nostra vita, evento ontologico e insieme spirituale: ontologico, perché rivela il nostro limite costitutivo di creature che «sono nel tempo e hanno del tempo, ma un tempo limitato»; spirituale, poiché sappiamo di dover morire, e questa consapevolezza, se da un lato può portarci a negare la vita per paura della morte (come ci ricorda con forza la Lettera agli Ebrei), dall’altro può spingerci a cercare il senso profondo della vita, e ad assaporarla con pienezza giorno dopo giorno.
In questa prospettiva, sottolinea Manicardi, il detto greco “Gnóthi seautón” (conosci te stesso) trova una sua ermeneutica importante in un altro antico adagio: “Memento mori” (ricorda che morirai): nel senso che l’uomo può comprendersi in verità solo «a partire da quel futuro che è la propria morte», e che solo dalla morte scaturisce la domanda sul senso, ossia «su ciò che veramente è centrale ed essenziale nella vita».
I due strumenti più potenti per indagare il rapporto fra morte e senso sono la filosofia e la religione, di cui Manicardi ricorda alcuni contributi fondamentali. La sapienza greca ci insegna, con Platone, che «la filosofia è esercizio di morte», perché «assumere la morte come punto di vista sulla vita significa entrare nella lucidità» e «abbracciare con sguardo contemplativo tutta la propria esistenza»; e, con gli Stoici e gli Epicurei, ci ricorda che «il pensiero della finitezza del tempo conduce a scoprire l’importanza della vita, a valorizzare ogni singolo istante e ad assumere la responsabilità del frammento presente», in modo tale che «l’esercizio della morte in definitiva altro non è che un esercizio di vita».
La Bibbia, dal canto suo, afferma che è compito dell’uomo saggio assumere la propria temporalità e mortalità (Signore, insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore: Salmo 90,12); e che la morte è una forza nemica multiforme, tristemente attiva in ogni «diminuzione della vita»: debolezza e malattia, prigionia e guerra, sopruso e angoscia. Ma la ragione profonda della paura che tutto ciò suscita in noi sta nel fatto che in queste esperienze, secondo l’uomo biblico, è innanzitutto il rapporto con Dio a essere interrotto e distrutto, cosicché la vera morte – quella di cui parla il libro della Genesi e alla quale può non esserci rimedio – è null’altro che negazione dell’amore.
Introduzione
Da un po’ di tempo a questa parte la morte sta attirando su di sé, in modo massiccio, l’attenzione dei contemporanei. E’ così nella riflessione filosofica e teologica (quest’ultima nuovamente interessata alle cosiddette “realtà ultime”), nella ricerca storica ed etnografica, nell’ambito etico oltreché, evidentemente, nel campo medico e biologico. In parallelo, la nostra società conosce forme di censura e di rimozione della morte che cercano di ridurla a un momento puntuale, puramente biologico, privandola di ogni dimensione comunitaria o almeno comunicativa, e togliendole ogni profondità spirituale. E se in tutte le culture la morte ha sempre conosciuto una ritualità che l’accompagnava e le dava “senso”, integrandola all’interno di un determinato sistema simbolico, oggi, nella società delle immagini che ha smarrito il senso del simbolo, il rito prevalente è quello dell’esorcizzazione collettiva della morte, attuato mediante l’esibizione e la spettacolarizzazione di morti reali ma anonime e lontane, un rito officiato dai mass media e che trova nella televisione il sommo sacerdote per eccellenza.
Di fronte alla morte, insomma, oggi in Occidente ci situiamo tra la rimozione della morte e una vera e propria epopea del macabro. Tuttavia la morte è il “caso serio” della nostra vita, è una realtà che rientra costitutivamente nell’esperienza umana e che all’uomo non può essere sottratta o celata. Dice il teologo evangelico Eberhard Jüngel: «La morte è l’estraneo per eccellenza nei confronti dell’esistenza umana e, al tempo stesso, è la nostra proprietà più intima. Ci possono privare di tutto, ci possono perfino togliere la vita, ma nessuno può toglierci la morte. Essa è la nostra proprietà più originaria». E il filosofo Vladimir Jankélévitch scriveva pochi anni fa’: «La morte è il problema per eccellenza. E, anzi, in un certo senso, l’unico».

La morte come domanda originaria e originante
La morte è l’evento che sigilla la nostra radicale povertà. Vi è una povertà ontologica, costitutiva dell’uomo in quanto tale, e di tale povertà ontologica la morte è la più evidente manifestazione. Si tratta di una povertà non misurabile esteriormente, non definita dal numero di cose di cui si manca, ma di ordine spirituale. Come spirituale è la morte. Non certo nel senso che non abbia una portata biologica, ma nel senso che l’uomo, a differenza degli animali, sa di dover morire: la coscienza del proprio dover morire, della propria mortalità, lo accompagna quotidianamente. Questo scomodo privilegio fa della morte non un momento relegabile nell’attimo terminale dell’esistenza e caratterizzato dal mero spegnimento delle funzioni cerebrali, dalla cessazione del battito cardiaco, ma un evento dello spirito che accompagna l’intera vita umana.
La coscienza della mortalità, in particolare, porta l’uomo a interrogarsi sul senso di una vita mortale. Dunque a cercare di conoscere se stesso nella via della domanda, dell’interrogazione: «Quando l’uomo vuol conoscere se stesso – sottolinea ancora Eberhard Jüngel – deve interrogarsi sulla morte». Non si tratta tanto di parlare della morte – noi infatti non abbiamo parole che siano all’altezza della morte – ma di far spazio a quella “parola originaria” (Yves Ledure) che è la morte stessa e che rende l’uomo un essere che si interroga e attribuisce significati all’esistere.
Nel IV libro delle “Confessioni” Agostino, sconvolto dalla morte di un amico, si lascia interpellare da questo evento che lo rende «una grande domanda a se stesso» (“Factus eram ipse mihi magna quaestio”: Confessioni IV,4). La morte ci svela nella nostra più radicale nudità, ci pone a confronto con l’enigma che siamo a noi stessi. Ma non è facile prendere sul serio la morte e porla come problema al cuore della vita. Ha scritto Freud: «A sentir noi, siamo naturalmente pronti a sostenere che la morte costituisce la fine necessaria di ogni forma di vita, che ognuno di noi ha verso la natura questo debito e deve essere pronto a saldarlo, e che dunque la morte è un fatto naturale, incontestabile, inevitabile. In realtà però siamo abituati a comportarci in tutt’altro modo. C’è in noi l’evidente tendenza a scartare la morte, a eliminarla dalla vita. Cerchiamo di mettere a tacere il pensiero... La propria morte è irrappresentabile, e ogni volta che cerchiamo di farlo possiamo constatare che in realtà continuiamo a essere ancora presenti come spettatori... In fondo, nessuno crede alla propria morte o, ciò che è equivalente, ciascuno è inconsciamente convinto della propria immortalità... Noi insistiamo sempre sul carattere occasionale della morte: incidente, malattia, infezione, vecchiaia avanzata, e così dimostriamo chiaramente la nostra tendenza a spogliare la morte di ogni carattere di necessità, a farne un avvenimento puramente incidentale” (Sigmund Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte).
In realtà, come evento spirituale coestensivo a tutta la vita, la morte riguarda tutto l’uomo e il senso stesso della vita, e in realtà dà anche inizio a molte cose nell’avventura dello spirito umano. Franz Rosenzweig scrive: «Dalla morte, dal timore della morte prende inizio ogni conoscenza circa il Tutto». E ancora Freud: «Non un enigma intellettuale e non una morte qualsiasi, bensì il conflitto emotivo di fronte alla morte di una persona amata ha dato corso all’umana ricerca. Da questo conflitto è nata tutta la psicologia».
In questo contesto, il detto greco “Gnóthi seautón” (conosci te stesso), decisivo per la civiltà occidentale, trova una sua ermeneutica importante in un altro adagio: “Memento mori” (ricorda che morirai). Ce ne offre un esempio diretto un antico mosaico conservato nel Museo Nazionale di Roma, e che rappresenta un uomo scheletrico, in punto di morte, ormai immobile, ma con un grande e sproporzionato dito indice puntato verso chi guarda. Sotto di lui una scritta, pienamente parte del mosaico stesso: “Gnóthi seautón”. La morte – o, meglio, un uomo morente – si pone come interpellazione e interrogativo per ogni altro uomo, e suggerisce di comprendersi a partire da quel futuro che è la propria morte. Chi contempla il mosaico fa necessariamente parte del mosaico stesso. E il confronto con quell’immagine lo pone a confronto con la sua morte, e il confronto con la sua morte deve condurlo a confrontarsi con se stesso. Il titolo potrebbe dunque essere: pensa che devi morire, perciò conosciti. Dalla morte scaturisce dunque la domanda sul senso, su ciò che veramente è centrale ed essenziale nella vita.

La filosofia come esercizio di morte
Il rapporto tra morte e senso, dunque tra morte e esistenza, è al cuore della riflessione filosofica occidentale che ha trovato espressione in particolare nell’affermazione platonica per cui la filosofia è esercizio di morte. Che cosa significa? Non è certo un invito al suicidio, ma un esercizio di vita e di libertà. Assumere la morte come punto di vista sulla vita significa entrare nella lucidità, significa accordare il primato alla vita dello spirito morendo alle passioni, significa passare dalla soggettività individuale all’oggettività della prospettiva universale: porsi dal punto di osservazione della morte significa situarsi in alto e abbracciare con sguardo contemplativo tutta la propria esistenza.
Per stoici ed epicurei il pensiero della finitezza del tempo conduceva a scoprire l’importanza della vita, valorizzava ogni singolo istante dell’esistenza: «Supponi che ogni giorno che brilla sia per te l’ultimo; sarà allora con gratitudine che riceverai ogni ora insperata» (Epicuro). Per Marco Aurelio la meditazione della morte diviene «un agire, parlare, pensare sempre come qualcuno che possa essere in punto di morte» (Pensieri II,11). Si tratta di rendersi conto che il momento presente, l’istante attuale che si sta vivendo ha un’importanza infinita e inestimabile perché potrebbe essere a breve interrotto dalla morte: perciò bisogna vivere in modo intenso. Si tratta di assumere la responsabilità del frammento presente, vissuto con estrema intensità, nella serena coscienza che è il tutto a nostra disposizione.
Per questi filosofi, dunque, la morte assume un ruolo fondante per dare senso al vivere: l’esercizio della morte in definitiva altro non è che un esercizio di vita. Dalla meditazione della morte dunque discende la coscienza della serietà e importanza e gravità della vita. Nella “Regola” di Benedetto (IV,47) l’esercizio di avere quotidianamente davanti agli occhi la prospettiva della morte non diviene un paralizzante esercizio dai toni macabri, ma la condizione che aiuta il monaco a divenire pienamente chi lui è, ad abitare se stesso, a entrare nella propria verità personale davanti a Dio, signore della vita e della morte.

La morte come dimensione del vivere
Il Salmo 90, al versetto 12 («Signore, insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore»), ci insegna che è compito umano-spirituale del credente assumere la propria temporalità e mortalità. Paragrafando le parole del salmista, possiamo dire: fa’ che assumiamo la temporalità della nostra vita divenendo pienamente coscienti della sua intrinseca limitatezza e finitezza. L’inizio della sapienza si cela in quell’atto. Occorre sapere che dobbiamo morire, assumerne la coscienza. E dalla conoscenza della propria mortalità si accede alla conoscenza di sé, alla sapienza. Del resto, come scrive Agostino: «Incerta omnia, sola mors certa» (In Psalmos XXXVIII,19).
Le scienze umane ci dicono che all’età di nove anni circa il bambino prende coscienza del fatto che tutti gli uomini devono morire, e che questo destino riguarda anche lui. Fino ad allora la morte non viene avvertita né come definitiva, né come irreversibile, e il bambino ha un’inconscia illusione di immortalità. Ed è importante notare che, in questo cammino, è l’esperienza della temporalità che rende l’uomo cosciente della mortalità. Non è semplicemente la constatazione che gli altri muoiono che mi porta a riconoscere che dunque anch’io morirò: «Un uomo saprebbe in qualche modo che la morte lo colpirà anche se fosse l’unico essere vivente sulla terra; lo saprebbe anche se non avesse mai visto un altro essere soffrire le trasmutazioni che rendono un corpo cadavere» (Max Scheler).
L’uomo dunque si conosce come essere nel tempo e che ha del tempo, ma un tempo limitato. Senza la consapevolezza della morte, dunque, il vivente non potrebbe comprendersi! E proprio perché la morte interviene nella sfera psicologica e affettiva dell’uomo durante la vita, essa non è soltanto un evento puntuale, ma una sfera che invade la vita. Questa, in particolare, è la concezione biblica della morte. Per la Bibbia, scrive molto bene Hans-Joachim Kraus, la morte «è una forza nemica multiforme. Ovunque si manifesti una diminuzione della vita sotto forma di debolezza, malattia, prigionia, minaccia nemica, privazione di diritti o angoscia, la sfera della morte fa irruzione nel campo umano. La ragione profonda del terrore che si manifesta in tutto ciò sta nel fatto che il rapporto con JHWH è interrotto e distrutto. Se la morte separa definitivamente l’uomo da Dio, gli stati di morte relativa sono le infinite vie dolorose dell’abbandono da parte di Dio (Sal 22,2). La realtà della morte comincia, infatti, là dove JHWH tace, dove l’uomo da lui abbandonato grida dal profondo (Sal 130,1). Se è vero che, secondo la concezione moderna, lo stato di morte è fissato a partire dal momento dello spegnimento della vita fisica, nell’Antico Testamento si trova invece una concezione incomparabilmente più profonda, fondata esclusivamente sul rapporto con JHWH. Che cosa sia la vita e che cosa renda tale la morte è determinato da JHWH soltanto».
Dunque, la Bibbia ci insegna che la morte assume tutta la sua drammaticità e tragicità soprattutto quando si presenta a noi come morte dell’altro, come morte della persona amata e da cui siamo amati. Nella seconda parte della relazione riprenderemo e approfondiremo questo aspetto, e svilupperemo i temi del rapporto fra amore e morte, e dell’accettazione della morte in una prospettiva di fede.

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi e, dal 2009, Vice Priore.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
Sullo stesso argomento per pazienti

Vuoi far parte della nostra community e non perderti gli aggiornamenti?

Iscriviti alla newsletter