Guida alla lettura
In questo densissimo brano Rowan Williams, arcivescovo di Canterbury, ci offre alcune coordinate per capire che cosa significhi, al di fuori dell’eccezionalità del martirio, «perdere la propria vita» per Gesù. Non è un cercare attivamente situazioni più o meno estreme di prova, perché questo non farebbe che assecondare la nostra propensione a mantenere il controllo degli eventi, ad alimentare il nostro orgoglio, a porre noi stessi – e non Cristo – come criterio di verità e di giudizio. Significa invece rinunciare agli infiniti stratagemmi psicologici e religiosi con cui ci sottraiamo all’incontro più decisivo della nostra vita, e accettare di vedere noi stessi, ciò che siamo in verità, alla luce dello sguardo di Dio. A quel punto, ci renderemo conto che «il “noi” o l’“io” di cui ci accontentiamo non possono essere visti da Dio e restare in vita». Ma ciò che scaturisce da questo confronto mortale non è la mortificazione delle nostre aspirazioni più profonde, bensì l’affermazione di una vita più autentica in cui, sapendo e accettando di essere amati, riusciremo a nostra volta ad amare gli altri, e noi stessi.
Proponiamo la riflessione di Williams all’attenzione di tutti, credenti o non credenti, perché – come abbiamo più volte sottolineato – siamo convinti che la vita e le parole di Gesù, prima di essere una proposta “religiosa”, siano innanzitutto un messaggio umano e umanizzante: perché l’amore dato e ricevuto è la sola forza capace di curare in profondità le nostre ferite, aiutarci a ricominciare, e dare un senso non effimero alla nostra vita.
Gli evangeli, la storia della chiesa, le costruzioni dell’immaginazione di romanzieri quali Dostoevskij e Bulgakov, ci offrono tutti una raffigurazione della varietà di stratagemmi che mettiamo in atto per evitare quella conversazione, e di quanto costi una simile elusione. Qualunque cosa ci spinga ai limiti della comprensione e ci renda estranei a noi stessi è capace di mettere in dubbio o fermare questa nostra tensione all’elusione. Questo non significa cercare situazioni estreme per poter mettere noi stessi alla prova. Il punto è che noi non predisponiamo prove per noi stessi, perché questo non solo rientrerebbe negli orizzonti del nostro mondo familiare ma alimenterebbe anche il nostro senso del drammatico, che è forse quanto vi sia di più ostile al genere di veridicità richiesto dall’“esperimento della croce”.
Mentre non possiamo predisporre quali giudizi dovremo affrontare, tuttavia possiamo in un certo senso fare dei preparativi, se non altro sviluppando l’abitudine di porre noi stessi davanti a Gesù, mettendoci sotto scrutinio e imparando a mettere in questione il nostro comportamento e le nostre definizioni, la nostra immagine di noi stessi e del mondo umano. Centrale, nel nostro incontro con Gesù, è la nostra disponibilità a restare silenziosi, a lasciare che il suo silenzio operi su di noi, a sentire il suo sguardo su di noi. Luca ce ne ha lasciato un’immagine ardente, quando conclude la sua descrizione del tradimento di Pietro con le parole: «Il Signore si voltò e fissò Pietro, e Pietro ricordò» (Lc 22,61).
Può aver voluto dire che Gesù letteralmente passò attraverso il cortile in quel momento; può aver cercato di indovinare l’effetto che il canto del gallo ebbe su Pietro, come se lo sguardo scrutatore di Gesù si fosse rivolto direttamente su di lui nell’attimo in cui la sua memoria si risvegliava. Non importa un granché. Tutti i racconti e tutte le nostre riflessioni su di essi ritornano alla consapevolezza vitale che qui, in presenza di Gesù, noi veniamo visti prima di vedere. Pensavamo di essere noi a compiere cose, a domandare, a guardare, a indagare. Improvvisamente è qualcun altro che agisce e noi ci rendiamo conto di essere quelli “agiti”, guardati, messi alla prova... Vediamo noi stessi, le nostre stesse identità, venire alla luce sotto i suoi occhi.
L’Antico Testamento chiede se un essere umano possa vedere Dio e vivere. Questi racconti ci pongono un’altra domanda: se possiamo essere visti da Dio, e vivere. Non possiamo. O piuttosto, il “noi” o l’“io” di cui ci accontentiamo non possono essere visti da Dio e restare in vita. Al termine del giudizio, dobbiamo arrenderci alla verità, metterci nelle mani del solo potere che può dare la vita. Questo richiede una fiducia a cui non siamo abituati, una fiducia che nasce solo quando sappiamo e accettiamo di essere amati.
Biografia
Esperto di patristica e del pensiero russo contemporaneo, da sempre impegnato per la pace nel mondo e la difesa degli ultimi, è stato eletto vescovo di Monmouth nel 1992 e arcivescovo del Galles nel 2000. Dal 2002 è arcivescovo di Canterbury e primate della Comunione Anglicana.