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Dio conta le lacrime delle donne – Seconda parte

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27/04/2011

Elena Lea Bartolini De Angeli

Guida alla lettura

Pubblichiamo la seconda parte della riflessione di Elena Lea Bartolini De Angeli, teologa e docente di Giudaismo, sull’espressione «Dio conta le lacrime delle donne», contenuta nel Talmud ebraico.
Come anticipato nel commento alla prima parte, cui rimandiamo per una più ampia introduzione, in questo secondo passo (non specificamente centrato sulla sofferenza femminile, ma prezioso per capire un elemento fondamentale dell’atteggiamento biblico di fronte al dolore) si sottolinea come nella tradizione ebraica ogni aspetto della vita quotidiana, anche il più negativo e contraddittorio, possa essere assunto nella preghiera e divenire occasione di preghiera e financo di benedizione: non nel senso che si debba lodare Dio per le sventure (Dio non vuole mai il male delle sue creature, ma che «abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza»: cfr. Gv 10,10), ma nel senso che per l’uomo biblico – la cui visione del mondo non prescinde mai dalla dimensione trascendente – l’affidamento fiducioso a Dio è l’unica fonte di autentica speranza anche nelle situazioni più drammatiche.
E’ questo, per esempio, il vero senso (al di là di tanti malintesi causati da errate prospettive storico-culturali) delle sconvolgenti parole pronunciate da Gesù sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). Anche nel momento più terribile, in cui la violenza, il dolore e l’abbandono – persino da parte del Padre – sembrano travolgere tutta la sua vita, Cristo si rivolge comunque a Dio, è a lui che grida il suo dolore, perché la realtà di Dio non è mai in discussione e rimane l’unica roccia veramente salda a cui aggrapparsi, anche quando ogni preghiera sembra cadere nell’abisso del nulla. Solo grazie a questa straordinaria capacità di affidamento Gesù, poco dopo, potrà dire «Tutto è compiuto» (Gv 19,30), «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46), e morire nella pace.
Benedizioni e maledizioni
Ritornando al tema del dolore e della sofferenza, la tradizione ebraica insegna che, anche in questa situazione, è possibile benedire Dio. Un esempio tipico lo troviamo nei Salmi biblici, che celebrano il Nome divino: «Dal sorgere del sole al suo tramonto sia lodato il Nome del Signore» (Sal 113,3), oppure che invitano alla lode: «Venite, applaudiamo al Signore, acclamiamo alla roccia della nostra salvezza» (Sal 95,1), o ancora che fanno memoria della fedeltà divina: «Forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura in eterno» (Sal 117,2); ma che ci ripropongono anche lamenti e imprecazioni da parte di chi percepisce la lontananza di Dio e gliene chiede ragione: «Perché, Signore, stai lontano, nel tempo dell’angoscia ti nascondi?» (Sal 10,1), «Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi?» (Sal 13,1), «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Sal 22,1), e ci testimoniano accorate suppliche che nascono da sofferenze fisiche, angosce e persecuzioni: «Con la mia voce al Signore grido aiuto, con la mia voce supplico il Signore» (Sal 142,2), «Signore, ascolta la mia preghiera, porgi l’orecchio alla mia supplica» (Sal 143,1).
Queste testimonianze bibliche attestano, da una parte, la libertà con cui il credente si rivolge a Dio e, dall’altra, l’inscindibile relazione fra preghiera e vita: il vissuto, bello o brutto che sia, non viene annullato, ma diventa piuttosto la particolare modalità, la singolare situazione, a partire dalla quale ci si pone di fronte al Signore. La liturgia salmica pertanto assume in sé ogni aspetto, anche contraddittorio, della vita quotidiana per riconsiderarlo alla luce di un rapporto umano-divino che rilegge la storia in Dio e riporta Dio nella storia.
In tale orizzonte un insegnamento rabbinico relativo alla preghiera fatta “con violenza” sostiene che al Signore ci si può rivolgere anche in questo modo: «Guarda dalla dimora della tua santità dai cieli: noi abbiamo fatto quello che ci hai ordinato, fai anche Tu quello che ci hai promesso!» [1]. Ma affinché l’uomo non dimentichi di essere una creatura di fronte al proprio Creatore un altro insegnamento rabbinico precisa: «La creatura non ha alcun diritto sul suo Creatore. Rabbi Jochanan ha detto: “Con dieci parole si definisce la preghiera. Queste sono: gemito, grido, sospiro, lamento, incontro, angoscia, invocazione, prostrazione, protesta e supplica... Ma fra tutte queste espressioni della preghiera, Mosè usò solamente la supplica. [...] Da questo tu apprendi che la creatura non ha alcun diritto sul suo Creatore”» [2]. Per questo la tradizione ebraica conosce benedizioni per ogni circostanza della vita: sia per i momenti di gioia che per quelli dolorosi, sia per lo stupore di fronte alle bellezze del creato che per l’angoscia e lo smarrimento in occasione di calamità naturali.
Se, da una parte, si può benedire Dio anche nell’ambito della sofferenza, dall’altra quest’ultima rimane per l’uomo – e quindi anche per la donna – un’esperienza che rimanda a un mistero che, come già abbiamo avuto modo di sottolineare [3], chiama in causa sia Dio che gli uomini; in ogni caso è una dimensione imprescindibile dell’esistenza con la quale ciascuno, prima o poi, deve misurarsi.

Note

1) Mishnà, Ma’aser Sheni V,13.
2) Deuteronomio Rabbà II,1
3) Cfr. E.L. Bartolini De Angeli, Il significato della sofferenza nell’ebraismo, sezione “Il dolore e la spiritualità”, 2009, su questo stesso sito.

Biografia

Di origini ebraiche da parte materna, Elena Lea Bartolini De Angeli è nata a Pavia nel 1958. Dottore in Teologia Ecumenica con specializzazione in ermeneutica rabbinica, è membro dell’Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo (AISG), del Coordinamento Teologhe Italiane (CTI) e dell’Associazione Mariologica Interdisciplinare Italiana (AMI).
E’ docente di Giudaismo presso il Centro Studi Vicino Oriente di Milano e presso l’ISSR-MI collegato alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale; collabora con diversi Atenei pontifici – tra i quali l’Istituto di Studi Ecumenici S. Bernardino di Venezia, l’Università Pontificia Salesiana (UPS), il San Bonaventura, il Marianum e l’Auxilium di Roma – e con diversi Istituti Teologici.
E’ docente e consulente all’interno di diverse iniziative locali e nazionali per il dialogo fra le chiese e gli ebrei: in particolare, ha curato il progetto Judaica (1998-2003) promosso dalla Casa Editrice Ancora di Milano. Attualmente dirige la collana “Studi Giudaici” per la Casa Editrice Effatà e cura la rubrica “Judaica” per la nuova edizione della rivista “Terrasanta” nell’ambito dei periodici della Custodia francescana. E’ consulente di redazione per le riviste “Terrasanta” e “Jesus”.
Ha curato la revisione ecumenica e la stesura delle voci ebraiche per l’“Enciclopedia del Cristianesimo”, edita da De Agostini (Novara 1997); ha curato alcuni “Quaderni” sull’Ebraismo per le Edizioni Studio Domenicano (Bologna 1997-1999), per le quali ha coordinato anche i “Quaderni” sulle Chiese della Riforma (Bologna 2004-2007).
Ha diretto la sezione “Ebraismo” per la nuova edizione dell’“Enciclopedia Filosofica”, edita da Bompiani (Milano 2006), a cura della Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate, sotto la direzione del Prof. Virgilio Melchiorre dell’Università Cattolica di Milano.
Collabora con gli Uffici Nazionali della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) e con alcune riviste, tra le quali, SeFeR (Studi-Fatti-Ricerche), Qol, Horeb, Studi Ecumenici, Parola Spirito e Vita (PSV), Rivista di Pastorale Liturgica (RPL), La scuola domenicale.
E’ membro del gruppo interconfessionale “Teshuvah” del Centro Ecumenico Diocesano di Milano, per il dialogo fra le chiese e gli ebrei, e collabora con il Segretariato Attività Ecumeniche (SAE). E’ socio fondatore e membro del Consiglio direttivo del Centro Studi Nazareth Alta Formazione (CeSNAF), per la promozione integrale della persona, della coppia e della famiglia.

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