L’arte di Fauré non nasce forse – come nel caso di altri compositori che abbiamo qui raccontato – da uno stato di sofferenza personale e diretta. Ma certo l’intimismo delle sue pagine, la loro freschezza lirica, la meraviglia del loro intarsio ricco di squisitezze armoniche ne fanno un antidoto generoso contro il mal di vivere. Come appunto in questa Sonata per violino e pianoforte Op. 13 (la prima delle due che ha scritto, la seconda è l’Op. 108), ultimata all’inizio del 1876 – Fauré aveva 31 anni – ed eseguita a Parigi l’anno dopo alla Société Nationale, anche qui con immediato successo. Tanto che l’amico Camille Saint-Saëns scrive sul Journal de la Musique: «Si trova in questa Sonata tutto ciò che può sedurre, la novità delle forme, la ricerca delle modulazioni, delle sonorità curiose, l’impiego dei ritmi più originali: su tutto questo si libra un fascino che avvolge l’opera intera e fa accettare alla folla degli uditori ordinari, come se fossero del tutto naturali, le arditezze più impreviste».
Bisogna dire che Saint-Saëns aveva intuito con grande forza, da compositore, quindi da chi riesce a cogliere subito la struttura della musica, le potenzialità di questa prima Sonata per violino di Fauré. Già dalle prime battute del movimento iniziale, un Allegro molto, siamo come avvolti da un’atmosfera di delicatezza estrema, rapidamente entra il tema principale, ed è cameristicamente uno di quelli che lascia il segno, che si fa “cantare” per la sua estrema e sintetica bellezza, con una melodia ricca, sensuale, elegante, e armonie iridescenti e luminose, che invitano alla serenità, alla gioia di vivere, più che all’introspezione eccessivamente intimistica.
C’è una evidente vitalità nelle scelte ritmiche di questa Sonata Op. 13, anche una freschezza di invenzioni, e un calore umano, che insieme con l’intensità del dialogo tra i due strumenti lasciano sul pentagramma una pagina di forte personalità, e anche per questo molto suonata nei programmi per concerti da camera, molto incisa discograficamente, spesso abbinata alla Sonata di César Frank. Dunque, come diremmo oggi, un “successone” per Fauré, che prediligeva i salotti aristocratici e borghesi di Parigi, ed è per questi che la sua musica era pensata e vedeva la luce, più che per le aule rigidamente formali del “Conservatoire”, che nonostante questo lo vide direttore e insegnante di composizione, con allievi tutt’altro che secondari, come Ravel e il nostro Alfredo Casella. La Sonata op. 13 è, insieme al Quartetto con pianoforte op. 15, uno dei suoi capolavori. L’Andante, secondo movimento, altro pezzo memorabile, forse ancora più raffinato, più giocato in filigrana cameristica, è sostanzialmente una mèlodie affidata al violino, a volte estesa al duetto col pianoforte. Nel primo tema è tenero, malinconico, con un secondo tema che suona come una danza libera, agile e fantasiosa.
Un altro gioiello di questa pagina è l’Allegro vivo, che nelle parole dell’allievo Ravel «vede rinnovarsi con uno spirito del tutto nuovo e più tagliente i fasti della leggerezza mendelssohniana. Incisi rapidissimi con accordi in contrattempo ne fanno una pagina scattante e nervosa, di esemplare modernità». E’ una sorta di Scherzo assai spiritoso, con una prima parte dominata da sequenze velocissime che rimbalzano tra violino e pianoforte, sostenute armonicamente da accordi anche aspri, capaci di rendere nervosa ed elettrica la pagina. Certo questo terzo tempo non ha la capacità di sedurre come i primi due, non è un pezzo di immediata conquista, anche se per lo slancio gioioso, per la vitalità ritmica e per una scrittura costruita in modo alternato su note staccate e pizzicate, l’Allegro vivo è unanimemente riconosciuto come il pezzo più riuscito dell’intera Sonata. Nel finale, Allegro quasi presto, ritorna il clima del primo tempo, fatto di melodie scorrevoli e contagiose.
Con questo lavoro, insomma, dopo avere già fatto la conoscenza del suo meraviglioso Requiem, così dolce e liberatorio da essere, com’è stato scritto, «nostalgia della vita piuttosto che terrore della morte, quasi che fossero i morti a cantare per i vivi, e non viceversa», incontriamo l’ambito di elezione del musicista francese, la musica da camera. La cui diffusione e immediata accettazione da parte del pubblico parigino è tanto più miracolosa se pensiamo che nella Francia di quegli anni dominava la “joie de vivre” degli spettacoli teatrali e dei balletti, distanti anni luce dall’arte raffinata e ricca di sottigliezze armoniche e melodiche di un Gabriel Fauré. D’altronde il musicista aveva scritto al figlio Philippe nel 1908: «L’immaginazione consiste nel cercare di formulare ciò che si vorrebbe di migliore, tutto ciò che oltrepassa la realtà… Per me l’arte, la musica, consiste nell’elevarci il più lontano possibile da ciò che è». Per questo vi consigliamo di aggiungere all’ascolto delle due Sonate per violino, anche le straordinarie Mélodies e, soprattutto, i due quartetti per pianoforte e archi, Op. 15 e Op. 45, con i quali il compositore francese arriva davvero in cima all’espressività cameristica con tratto elegante e felicità di invenzione.
Buon ascolto.
Per approfondire l'ascolto
Arthur Grumieaux, violino; Gyorgy Sebok e Paul Crossley, pianoforte (Philips, disponibile anche su iTunes e Google Play Music)
2) Gabriel Fauré
Piano Quartets Op. 15 & Op. 45
Yo-Yo Ma, violoncello; Emanuel Ax, pianoforte; Isaac Stern e Jaime Laredo, violino (Sony Classics, disponibile anche su iTunes e Google Play Music)
3) Gabriel Fauré
Mélodies
Elly Ameling, soprano; Gérard Souzay, baritono; Dalton Baldwin, pianoforte (Emi Classics, disponibile anche su iTunes e Google Play Music)