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Porre fine al dolore: un contributo di pensiero al di là delle religioni

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10/06/2020

Tratto da:
Jiddu Krishnamurti, La fine del dolore. Discorsi a Saanen 1980, Edizioni Aequilibrium, 1986

Selezione del brano, guida alla lettura e biografia a cura di Pino Pignatta

Guida alla lettura

«Che cos’è il dolore? E’ per caso autocompassione? Vi prego di domandarvelo. Non stiamo dicendo che lo è o che non lo è [...] Che il dolore sia provocato dalla solitudine, dal sentirsi disperatamente soli e isolati? [...] Possiamo osservare il dolore come concretamente si presenta in noi e restare con esso, tenerlo con noi e non distogliercene? Il dolore non è diverso da colui che soffre. La persona che soffre vuole scappare via, fuggire, fare ogni sorta di cose. Ma se contemplate il dolore come si contempla un bambino, un bel bambino, se lo tenete stretto, e non gli sfuggite mai, a questo punto vedrete da soli, se veramente guardate a fondo, che il dolore cessa. E con la fine del dolore c’è la passione; non il desiderio, non l’eccitazione dei sensi, ma la passione».

Queste parole sono di Jiddu Krishnamurti, filosofo indiano e maestro spirituale. Di origine induista, perché la famiglia faceva parte della casta dei Bramini (la stessa a cui apparteneva il Buddha storico, Gautama Siddharta), cioè dei sacerdoti, una delle quattro caste in cui è divisa la società indiana, in nessun modo fa però parte dell’Induismo come religione codificata, perché a un certo punto della vita inizia una ricerca personale che non può essere inserita in nessuna tradizione specifica.
Molti i discorsi, spesso pubblici, in cui Krishnamurti ha affrontato la sofferenza. Per esempio nel 1896, un anno prima di morire, tenne una serie di incontri a Washington. E da uno di questi abbiamo tratto lo spunto iniziale per questa riflessione dove, come spiega il professor Gianfranco Bertagni in una lezione alla Scuola di Filosofia Orientale, «la centralità è nella frase “Il dolore non è diverso da colui che soffre”: la cosa terribile non è semplicemente il dolore in sé, ma il fatto che sia impossibile fuggirlo. Ogni volta che si presenta, la speranza in noi si riattiva: ci sarà un modo per correre ai ripari? Ma è sempre la stessa storia: non puoi fare nulla. Vuoi scappare, ma è un vano tentativo. Reagire al dolore è solo ulteriore sofferenza. Una nuova possibilità, poco indagata, ancor meno praticata, è guardarlo, investigarlo a fondo, penetrarlo, analizzarlo con precisione chirurgica».
Ed è appunto nel dolore che «non è diverso da colui che soffre» il punto d’osservazione al quale noi occidentali – nonostante un pensiero filosofico di primaria grandezza e raffinatezza, che muove dai presocratici per arrivare al nichilismo – non ci affacciamo quasi mai. Il progresso scientifico, farmacologico, le tecniche di contrasto alla sofferenza oggi permettono ai malati di tenere a bada il dolore, di attenuarlo, vivendo nel modo più sereno possibile grazie a terapie all’avanguardia frutto dei progressi della medicina, della chimica, della diagnostica. Questo è un traguardo consolidato.
Ma qui, nel pensiero di Krishnamurti, quello che è interessante valutare è un altro sguardo, un diverso orizzonte sul dolore, per pesarne la consistenza e la possibile liberazione. Questo è un dolore che non è “altro da sé”. Un dolore che non è un fenomeno osservato dove io sono l’osservatore che lo subisce; non è un oggetto dove io sono il soggetto, e quindi c’è una distanza, un dualismo, un’alterità. In questa visione, il dolore sono io e io sono il dolore: lo accolgo, lo osservo, lo accetto e lo lascio andare. Il mondo, antichissimo, della spiritualità orientale ci propone strade alternative, angoli di visuale a cui non siamo abituati, che possono svelarci modi di resistere al dolore assai lontani dal nostro. Fondati, per esempio, sul controllo della respirazione, che porta via via a una maggiore concentrazione e accettazione di noi stessi: varie tecniche di meditazione basate sulla consapevolezza del respiro conducono a una rarefazione dei pensieri, delle sensazioni negative, e delle sensazioni dolorose, che se ne vanno, passano, «come sempre passano le nuvole bianche nel vasto cielo azzurro».
Nel brano successivo vi proponiamo alcuni stralci (esplicitamente autorizzati dall’editore) di un libro che contiene alcuni discorsi di Jiddu Krishnamurti sul dolore, questa volta raccolti nel 1980 durante un viaggio a Saanen, Svizzera, nel Canton di Berna.
Ogni essere umano su questa terra incontra il dolore. Nessuno sembra in grado di sottrarvisi.
Il dolore dell’uomo è il dolore dell’umanità.
C’è dolore fisico, c’è dolore quando muore una persona cara, quando non si riesce ad ottenere quello che si desidera, quando si fallisce la scalata al successo, in campo mondano o in campo religioso – nel cosiddetto campo spirituale. C’è dolore quando si perde il proprio lavoro, o quando si teme di rimanere completamente soli.
Morte, malattia, vecchiaia, menomazioni fisiche o psicologiche, sono tutte sorgenti di dolore.
Se siete d’accordo, affrontiamo insieme la questione del dolore dell’umanità, che è il vostro stesso dolore.
Da millenni l’uomo vive soffrendo.
Durante il periodo storico che conosciamo, ci sono state cinquemila guerre. Potete immaginarvi quante lacrime, quante sofferenze, quante atrocità. Potete immaginarvi la crudeltà, l’angoscia.
E non è finita. Le nostre guerre tribali continuano. Sono trascorsi millenni e tuttavia non siamo stati capaci di risolvere questo tremendo problema; non siamo stati capaci di risolverlo così definitivamente da aprire la porta a una energia nuova, totalmente diversa dall’energia del pensiero, della sofferenza, dell’angoscia.
Che cos’è la sofferenza? Perché l’essere umano è sempre stato coinvolto nel dolore?
La sofferenza ha una causa? Se ce l’ha, allora può avere anche una fine, perché tutto ciò che ha una causa, un principio, deve avere anche una fine. Questa è una legge.
Noi non siamo entità separate tra loro; e come esseri umani dobbiamo chiederci che senso ha vivere nella paura, nel conflitto. Perché non siamo mai liberi, né esteriormente, né interiormente, da questo stato di conflitto e dalla paura che esso implica?
Siamo consapevoli del dolore che ci affligge? Siamo capaci di osservare la terribile, disperata solitudine dell’essere umano, che si trascina in una vita vuota, senza speranza e priva di qualsiasi significato?
Che cos’è il dolore?
La parola “dolore” è connessa con la parola “passione”, passione non nel senso di desiderio bruciante, sessuale o di altro genere. C’è dolore quando perdete una persona che avete amato... Improvvisamente vi trovate soli, abbandonati, e vi sentite assaliti da uno spaventoso senso di vuoto, perché l’attaccamento alla persona, dalla quale dipendevate, è stato troncato di colpo.
Avevate vissuto insieme; avevate parlato, discusso, riso insieme; insieme avevate camminato per monti e per valli, lungo la riva dei fiumi. Ora, improvvisamente, vi ritrovate soli.
Sono sicuro che sapete che cosa significa.
La mente non è capace di capire questo vuoto improvviso, non è capace di fargli fronte; allora cerca disperatamente un rifugio, qualcosa che le dia un po’ di conforto.
Forse il dolore è il concentrato di tutte le conseguenze delle nostre azioni quotidiane, che mantengono e alimentano uno stato di isolamento, di separazione reciproca?
Quella straordinaria e complessa energia che ci fa vivere viene fatta precipitare dalle nostre azioni, dai nostri desideri quotidiani, in un canale spaventosamente ristretto.
Questo canale terribilmente limitato è l’ego, che significa sofferenza, infelicità, sforzi ininterrotti.
La tremenda energia della vita viene imprigionata in questa misera entità, che chiamiamo “signore”, il signor Smith, il signor tal dei tali. Capite?
Non ci rendiamo mai conto che mantenerci costantemente separati dagli altri, nutrendo aggressività, ambizione, egoismo, e preoccuparci unicamente di soddisfare i nostri desideri, fa precipitare la formidabile energia della vita in uno spazio terribilmente ristretto.
E il dolore sta ad indicare, a mettere in evidenza, lo stato di separazione in cui accettiamo di vivere.
Può darsi che il dolore stia ad indicare lo stato di dipendenza, di attaccamento, di corruzione, nel quale viviamo.
E anche la morte fa parte della corruzione...

Biografia

Jiddu Krishnamurti nasce in India, nel Sud del Paese, a Madanapalle, tra Madras e Bangalore, nel 1895, in una famiglia di Bramini indù. A dieci anni perde la madre e la sorella: la loro mancanza lo segna per tutta la vita. Di etnia indiana, dopo alcuni anni passati a contatto con le idee della Società Teosofica, un movimento che aveva l’obiettivo di unificare tutte le religioni, decide di non appartenere più ad alcuna nazionalità o tradizione spirituale specifica, per cui nel 1948 rifiuta la cittadinanza indiana, rimanendo apolide.
Jiddu non si è mai atteggiato a “guru”: ha dedicato semplicemente le sue energie a spiegare perché è necessario che l’umanità si liberi dalla paura, dall’ansia, dalla gelosia, dal dolore e dalla rabbia. Ha lasciato una grande raccolta di scritti – interviste, lettere e discorsi – nei quali, nonostante trovasse ovunque una calorosa accoglienza come maestro spirituale, non parlava mai di scuole, di teologia, di confessioni.
Nelle parole del professor Giuliano Giustarini, che insegna Lingua e letteratura pāli alla Mahidol University, in Thailandia, l’oggetto centrale della spiritualità di Krishnamurti «è la liberazione da ciò che impedisce la liberazione: il cuore della sua ricerca ha toccato temi essenziali quali la morte, la paura, l’amore, il rapporto con gli altri, la meditazione, la religione, la natura della mente. Quale che fosse l’argomento su cui si soffermava, Krishnamurti ha sempre sottolineato il ruolo fondamentale della consapevolezza, del semplice vedere le cose così come sono, senza manipolazioni da parte dell’io».
Jiddu Krishnamurti è morto a 90 anni, per un cancro al pancreas, nel 1896 a Ojai, California. Le sue ceneri sono state sparse in India, Stati Uniti e Inghilterra, i tre Paesi che hanno avuto più influenza nella sua vita.
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