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Legittima difesa e nonviolenza: essenziale il discernimento delle situazioni

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10/10/2012

Tratto da:
Paolo Ricca, E' proprio legittima la «legittima difesa»?, Riforma, 27 luglio 2012

Guida alla lettura

Quest’ampia riflessione di Paolo Ricca, teologo della Chiesa Evangelica Valdese, illumina il significato e la liceità della legittima difesa, attuata anche in forme violente, per chi si professi cristiano: un tema tutt’altro che accademico, in un mondo e un tempo attraversati da ogni sorta di sopruso e dalla inquietante sensazione che il delitto – sulla grande scena della storia come nel microcosmo dell’esperienza quotidiana – abbia spesso la meglio sul diritto, moltiplicando ingiustamente il dolore delle vittime.
Tre le considerazioni fondamentali che, ci pare, possono essere tratte dal brano. Primo: non si può dire che Gesù, nel cacciare i mercanti dal Tempio, sia stato un «modello di nonviolenza». E questo ci insegna che «in determinate situazioni, le parole sono inutili, solo l’azione “parla”, e parla meglio di tanti discorsi»: anche se poi, sottolinea Ricca, quel gesto avvenne «nel rispetto totale dell’integrità fisica delle persone», e questo – per il credente – fissa di per sé uno spartiacque netto fra ciò che in taluni casi può essere lecito e ciò che lecito non è mai.
Secondo, una cosa è la legittima difesa quando l’aggressione riguarda noi stessi, un’altra quando è in gioco la vita di altre persone: «Il cristiano può rinunciare alla propria autodifesa, ma non può rinunciare a difendere le vittime di una violenza o di un’ingiustizia di qualunque genere». L’invito a “porgere l’altra guancia”, che pure giunge da Cristo e di Cristo ha tutta l’autorevolezza, vale per ciascuno dei suoi discepoli, ma nessuno di noi può imporlo agli altri nel momento del pericolo. Dopo il fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944 Dietrich Bonhoeffer, pastore protestante, a un compagno di prigionia che gli chiedeva come avesse potuto appoggiare una cospirazione politica violenta, sia pure contro un tiranno sanguinario, rispose: «Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore, accontentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Io devo, se mi trovo in quel posto, saltare e afferrare il conducente al suo volante».
Terzo: nonostante tutto ciò, e anche quando sia veramente necessaria, la violenza non è mai “santa”, né liberatrice, nella vita di tutti i giorni come nei grandi eventi storici e collettivi. Perché «anche quando libera, la violenza incatena», perché in ultima analisi non è in grado di generare vera libertà, e «chi oggi l’adopera per liberare, domani facilmente l’adopera per opprimere». Mentre la vita di uomini come Tolstoj, Gandhi, Martin Luther King dimostra che la nonviolenza, pagata in prima persona, può davvero essere un’opzione dagli «esiti sorprendenti» e uno stile eloquente per tutti, cristiani e non cristiani.
«C’è una domanda che, come credente (sono cattolico) mi pongo da tempo: una domanda che ritengo, stando alle cronache di questi mesi, di pressante attualità. Infiniti episodi di violenza sembrano ritmare la vita delle nostre giornate. Facciamo un’ipotesi: entro in casa e trovo qualcuno che sta violentando mia figlia o mia moglie. Come cristiano dovrei stare a guardare, o posso aggredire l’aggressore per fermarlo? Si sa che quando si comincia con la violenza non si sa dove si va a finire. Pur essendo credente non riesco proprio ad accettare il rifiuto della legittima difesa. Ci sono casi estremi in cui la violenza è necessaria, vorrei dire sacrosanta, per fermare la furia omicida. Al limite anche commettendo un omicidio per salvare un innocente. Gesù, davanti alla brutale aggressione di un innocente, starebbe a guardare? E noi, che in lui crediamo, come possiamo far nostro, in situazioni estreme, un atteggiamento di radicale nonviolenza? Gesù afferma che a colui che scandalizza un bambino sarebbe meglio che «gli fosse messa al collo una macina da mulino e fosse gettato in mare» (Marco 9, 42). Non mi sembra che Gesù escluda in casi limite, come dire, un intervento violentemente risolutivo. O mi sbaglio?».
Gian Maria (Milano)


No, il nostro lettore non si sbaglia. Non so, e nessuno sa, che cosa farebbe Gesù «davanti alla brutale aggressione a un innocente», ma sicuramente non rimarrebbe lì a guardare la scena, non resterebbe spettatore, ma interverrebbe, in un modo o nell’altro, per fermare l’aggressore.
Come è noto, una certa violenza Gesù l’ha esercitata quando, indignato dallo spettacolo del Tempio di Gerusalemme trasformato, da «casa di preghiera per tutte le genti», in casa di mercato («spelonca di ladroni»), «si mise a cacciare coloro che vendevano e coloro che compravano, e rovesciò le tavole dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombi» (Marco 11,15). Non si può dire che qui Gesù sia stato un modello di nonviolenza. Il suo sdegno lo ha spinto a non limitarsi a dire le cose, come sempre faceva, affidandosi unicamente alla forza di persuasione delle sue parole, ma a parlare attraverso un gesto, diciamo pure violento (anche se nel rispetto totale dell’integrità fisica delle persone), comunque un’azione di forza, non di persuasione, ma di imposizione, con la quale Gesù ha obbligato i mercanti e i loro clienti a uscire dal tempio, e ha spazzato via buttandoli a terra gli strumenti del loro commercio (tavoli e sedie). E’ l’unica volta, nei raccolti evangelici, che Gesù è stato così energico nei modi, ma è importante, credo, che un episodio del genere sia stato tramandato fino a noi, a riprova di due fatti: il primo è che, in determinate situazioni, le parole sono inutili, solo l’azione “parla”, e parla meglio di tanti discorsi; il secondo è che Gesù, pur essendo stato dall’inizio alla fine un nonviolento, un profeta disarmato che non ha fatto ricorso ad altra “arma” che quella della parola e dell’amore senza condizioni, in un caso ha cacciato dal Tempio a viva forza (non solo con la forza della parola) coloro che lo avevano trasformato in una bottega.
Del resto, anche Dio sa imporsi all’uomo, facendo forza sul suo animo e sulla sua volontà. C’è al riguardo la nota e drammatica testimonianza del profeta Geremia che dice: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi son lasciato sedurre, mi hai fatto violenza e hai prevalso» (Geremia 20,7). Ma anche l’apostolo Paolo parla della sua vocazione a predicare l’Evangelo come di una “necessità” che gli è “imposta”, come di un destino al quale non si può sottrarre perché Dio è più forte di lui (I Corinzi 9,16). E non è certamente un caso che nella Bibbia la parola di Dio sia paragonata a una “spada a doppio taglio”, di cui anzi è “più affilata” (Ebrei 4,12): essa può dunque anche ferire per poi guarire, può far male prima di fare del bene (si pensi, a esempio, ai ripetuti «Guai a voi!» di Gesù in Matteo 23,13-33), può anche essere – se così posso dire – spiritualmente violenta «come un martello che spezza il sasso» (Geremia 23,29). È vero che quando Dio, vincendo le nostre resistenze, si impone finalmente a noi, esercita una sorta di violenza salutare, se così si può dire, sul nostro sistema di difesa nei suoi confronti, fa valere e prevalere la forza del suo “sì” su quella del nostro “no”. Allora si fa l’esperienza della verità di ciò che Dio dice di se stesso per bocca di Mosè: «Io faccio morire e faccio rivivere, ferisco e risano» (Deuteronomio 32,29).
Ma torniamo al problema sollevato dal nostro lettore, che è quello della legittima difesa. Tutti sappiamo che sul piano della legge civile la legittima difesa è addirittura un diritto, che ogni cittadino può esercitare, s’intende nei limiti rigorosi fissati dalla legge. Il nostro lettore però si chiede se questo diritto esista anche per il credente, se cioè l’esercizio della legittima difesa sia lecito anche a chi – come lui – professa la fede cristiana. La domanda dunque è: l’autodifesa, legittima civilmente, lo è anche cristianamente? Il fatto che il nostro lettore si ponga questa domanda, gli fa onore. A prima vista infatti siamo tutti inclini a considerare ovvio e fuori discussione il diritto alla legittima difesa. Ma questo diritto, ovvio per noi, non lo è affatto per la Sacra Scrittura che, al riguardo, dice cose molto diverse, per non dire opposte, a quelle che di solito pensiamo. Il nostro lettore s’è accorto di questa differenza e, pur essendo convinto di avere, anche come credente, il diritto alla legittima difesa, si chiede se questa sua convinzione sia cristianamente fondata oppure no. La domanda conclusiva della lettera è: «Mi sbaglio?». All’inizio della mia risposta, ho già detto che non si sbaglia, ma il discorso è complesso e richiede qualche approfondimento. Ecco alcuni punti e spunti.
1. Occorre anzitutto fare una distinzione fondamentale: una cosa è la legittima difesa quando l’aggressione riguarda la nostra persona o i nostri beni, un’altra cosa è quando sono in gioco i diritti, l’onore, la libertà di altre persone, siano esse parenti oppure no. Mentre il cristiano può rinunciare a un suo diritto – anche a quello della legittima difesa – può cioè «patire qualche torto» (I Corinzi 6,7), non può invece accettare che vengano lesi i diritti del suo prossimo (vicino o lontano che sia). Il cristiano può rinunciare alla propria autodifesa, ma non può rinunciare a difendere le vittime di una violenza o di un’ingiustizia di qualunque genere. Il cristiano può, come l’apostolo Paolo, «non fare uso dei suoi diritti» (I Corinzi 9,12.15), ma deve difendere con tutte le sue forze i diritti degli altri. Nel caso citato, a titolo di esempio, dal nostro lettore (la violenza a sua moglie o a sua figlia) non c’è posto per alcun dubbio: egli dovrebbe intervenire proprio come credente, in difesa non già del suo onore ferito di marito o di padre, ma dell’integrità fisica e psichica, della dignità e della libertà di sua moglie o di sua figlia.
2. Leggiamo nella lettera: «Ci sono casi estremi in cui la violenza è necessaria, vorrei dire sacrosanta, per fermare la furia omicida».
[a] È vero che i casi estremi ci sono, anche se non è mai facile decidere quando un caso diventa realmente “estremo”. Comunque è importante stabilire che esistono casi estremi nei quali è lecito l’uso della violenza anche da parte di un cristiano. Il quale però dovrà chiedere a Dio di aiutarlo a discernere i “casi estremi” da quelli che non lo sono.
[b] La violenza può essere necessaria, ma non “sacrosanta”. Solo la volontà di Dio è sacrosanta. Neppure quando è comandata da Dio – in qualche raro caso può esserlo – la violenza diventa sacrosanta. Ricordo che negli anni caldi del Sessantotto si amava distinguere, negli ambienti della sinistra, tra la violenza “che opprime” e la violenza “che libera”. Si esecrava, ovviamente, la prima, e si inneggiava alla seconda. Ora è vero che non tutte le violenze sono uguali nel senso che la violenza può essere posta al servizio di un progetto di liberazione (come, a esempio, nelle guerre di liberazione), così come può servire a opprimere. Ma col tempo e con l’esperienza abbiamo capito che anche quando libera, la violenza incatena. Chi l’adopera una volta, ne diventa succubo per sempre. E chi oggi l’adopera per liberare, domani facilmente l’adopera per opprimere. E’ successo tante volte nella storia, anzi succede quasi sempre. Il fatto è che ogni violenza, anche quella che libera, non è in grado di generare la vera libertà, che è la libertà dalla violenza. Perciò più che contare sulla violenza “che libera”, dovremmo cercare di liberarci dalla violenza e dall’illusione che essa sia veramente risolutiva.
3. Leggiamo un’altra frase della lettera: «Non mi sembra che Gesù escluda nei casi limite, come dire, un intervento violentemente risolutivo». Non possiamo ovviamente sapere che cosa Gesù abbia o non abbia escluso o incluso in questo genere di problemi. Quello che però sappiamo per certo è che una delle parole più nuove e più rivoluzionarie (e perciò anche più discusse e contestate) che Gesù abbia pronunciato è: «Voi avete udito che fu detto: Occhio per occhio, dente per dente. Ma io vi dico: Non contrastate il malvagio; anzi, se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l’altra...» (Matteo 5,38.41). Gli fa eco l’apostolo Paolo che dice la stessa cosa con altre parole: «Non rendete ad alcuno male per male... Non fate le vostre vendette... Non essere vinto dal male, ma vinci il male col bene» (Romani 12,17-21). Il senso di queste parole è chiarissimo: quando si tratta di te personalmente (e non del tuo prossimo, chiunque esso sia), quando sono in gioco il tuo diritto (a esempio di difenderti), il tuo onore, la tua libertà (e non quelli del tuo prossimo), allora, se vuoi essere cristiano, «porgi l’altra guancia», «vinci il male col bene », cioè non rispondere alla violenza con un’altra violenza, ma spezza la catena della violenza con la nonviolenza. Questa è la regola d’oro del nuovo mondo di Dio, che Gesù ci propone di vivere in questo mondo. Tolstoj, Gandhi, Martin Luther King, e tantissimi altri, cristiani e non cristiani, l’hanno vissuta, pagando un alto prezzo, ma con esiti sorprendenti. Certo, ci sono i casi limite, in cui la violenza risulta essere necessaria: necessaria forse, risolutiva mai.

Biografia

Paolo Ricca nasce a Torre Pellice (in provincia di Torino) nel 1936. Dopo aver conseguito la maturità classica a Firenze, studia Teologia a Roma, negli Stati Uniti e a Basilea (Svizzera), ove consegue il dottorato con una tesi sull’escatologia del Vangelo secondo Giovanni.
Consacrato pastore della Chiesa valdese nel 1962, esercita il ministero a Forano e a Torino, e segue il Concilio Vaticano II per conto dell’Alleanza Riformata Mondiale. Dal 1976 al 2002 insegna Storia della Chiesa e, per alcuni anni, Teologia Pratica presso la Facoltà Valdese di Teologia di Roma.
Membro per quindici anni della Commissione “Fede e Costituzione” del Consiglio Ecumenico delle Chiese (Ginevra), opera in diversi organismi ecumenici ed è per due mandati presidente della Società Biblica in Italia.
Attualmente è professore ospite presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma e dirige la collana “Lutero. Opere scelte” dell’editrice Claudiana di Torino.
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