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La sofferenza della natura, responsabilità di tutti

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09/11/2011

Tratto da:
Enzo Bianchi, Forme e profumi che parlano all'io, La Stampa, 24 settembre 2011

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Questo articolo di Enzo Bianchi, priore della Comunità Monastica di Bose, ha un taglio diverso da quelli che solitamente proponiamo nella nostra rubrica. Esso infatti non parla della sofferenza che sperimentiamo nella vita, ma del dolore globale, ecologico che la nostra civiltà infligge alla terra da cui veniamo, grazie alla quale viviamo e a cui tutti dobbiamo ritornare: il dolore degli animali asserviti e maltrattati, delle piante soffocate dal cemento, dei mari e dei fiumi lordati, delle campagne abbandonate, o sfruttate senza discernimento. Non solo noi, infatti, soffriamo! E d’altra parte, quel dolore universale si ritorce poi contro noi stessi: innanzitutto perché lo stress, la solitudine e certe patologie sono il prezzo che paghiamo per il male inflitto alla natura; e poi perché una gestione puramente mercantile dell’ambiente finisce per creare inedite e drammatiche forme di povertà, laddove un tempo la vita – pur nelle ristrettezze materiali – fioriva con sapienza e nell’armonia.
Ma la straordinaria qualità dell’articolo non sta solo nella forza profetica con cui ci pone di fronte alle nostre responsabilità nei confronti del mondo. Essa promana anche da altri due elementi, meno immediatamente visibili, ma di grande suggestione.
Il primo: la prosa ampia e fluente con cui Bianchi racconta la lavorazione del pane, dalla semina del frumento alla cottura dell’impasto, e poi la sua fruizione attraverso tutti i sensi, è un potente esempio del valore terapeutico della letteratura. La pacatezza di quei gesti antichi rivive infatti nel ritmo calmo delle parole e delle frasi: e la lettura del brano, se non frettolosa, ci regala un momento di autentica serenità, un netto – anche se momentaneo – distacco dalle preoccupazioni.
Il secondo: Bianchi ci parla di una civiltà lontana, in cui la sapienza pratica aveva un ruolo centrale, la consapevolezza della brevità della vita non esitava in ripiegamenti depressivi ma si traduceva in robusta alacrità, e la vita quotidiana – lo ripetiamo, contro ogni tentazione idealizzatrice: tutt’altro che facile e agiata – veniva illuminata dalla bellezza delle cose semplici e delle relazioni sincere. Questi fattori, se riscoperti e coltivati, potrebbero alleggerire anche la nostra fatica di vivere e ridare colore a un’esistenza che in troppi casi si adagia in un grigiore senza slanci.
A chi volesse approfondire i temi toccati da Enzo Bianchi, consigliamo la lettura dei due libri che egli ha recentemente dedicato all’argomento: “Il pane di ieri” (Einaudi, 2008) e “Ogni cosa alla sua stagione”  (Einaudi, 2010).
Non si può parlare del pane senza fare riferimento al “da dove” esso è tratto, cioè dalla terra. Dalla terra, dalla adamà è tratto l’adam, l’umano, il terrestre (cf. Genesi 2,7): noi siamo fatti di terra e alla terra torniamo (cf. Genesi 3,19). La terra, nostra madre, chiede di essere custodita e lavorata, non lasciata vergine, perché in tal caso non potrebbe essere per noi madre; tutto questo però va fatto con rispetto, senza sfruttarla indebitamente né violentarla. Oggi il nostro rapporto con la terra si è fatto critico e tutti siamo consapevoli del rischio della catastrofe ecologica. In nome della crescita, del libero mercato, di un’insaziabile pretesa di arricchimento, di un consumo senza limiti, la terra madre è sempre più desolata e devastata. Come annunciava Friedrich Nietzsche oltre un secolo fa, «il deserto avanza», continua ad avanzare anche tra di noi, nei nostri campi e tra le nostre colline che, dopo essere state offese dalla cementificazione, ora sono insidiate anche da distese di pannelli solari che, se collocati senza discernimento, scacciano le nostre colture, tolgono sovranità alimentare e spesso feriscono la bellezza del paesaggio, cioè della terra.
Agiamo nei confronti della terra come se ne fossimo i padroni assoluti, come se fossimo i soli ad aver diritti su di essa e nessun dovere nei suoi confronti; non ci rendiamo conto che la natura e l’ambiente non sono nostra proprietà né sono un luogo di risorse a nostra totale e arbitraria disposizione. La terra deve sì darci il pane, ma noi umani dobbiamo a nostra volta riconoscere che esistono diritti dell’ambiente, della natura, che le altre co-creature, gli altri co-inquilini della terra sono portatori di diritti come noi: natura, animali, piante, umani, siamo tutti co-inquilini e tutti soggetti di diritti che vanno tutelati e sinfonicamente affermati. Insomma, parafrasando il comandamento presente in Levitico 19,18 e ripreso da Gesù (cf. Marco 12,31 e i passi paralleli negli altri Vangeli), mi verrebbe da dire che oggi si è fatto urgente il comandamento: «Ama la terra come ami te stesso», nel senso che amare se stessi e il prossimo richiede di amare questa terra sulla quale veniamo e in cui da inquilini viviamo per «settant’anni, ottanta se ci sono le forze» (Salmi 90,10). Dunque per «trarre il pane dalla terra» (Salmi 104,14) occorre assolutamente imboccare un’altra strada, vista la consapevolezza che oggi abbiamo della degradazione ecologica, dell’umiliazione della terra madre causata dall’abuso e dall’abbandono delle nostre campagne.
È in questa terra, terra madre più che mai, che le nostre granaglie sono seminate, entrando nel solco. Si tratta di sementi selezionate lungo le generazioni e i millenni, di granaglie che portano il segno di una sapienza acquisita, ricercata, sperimentata da umani diversi e in terre diverse: frumento, segale, farro... Ma anche a questo proposito si staglia all’orizzonte una pericolosa minaccia: su quest’opera anonima ma grandiosa dei contadini dell’umanità si pretendono oggi i diritti del brevetto, si pretende di privatizzare i semi che stanno alla base della catena alimentare; si vorrebbe delineare una storia futura in cui sementi, acqua e aria siano merci sottomesse alle logiche di mercato, non più patrimonio vitale per ogni persona e comunità della terra, ma proprietà in mano a multinazionali anonime, spietate nei confronti dei poveri della terra…
Una volta seminato, aiutato a crescere, maturato, ecco spuntare dalla terra il grano, che viene macinato e appare come farina, fior di frumento, midollo di frumento, grasso di frumento, tutte definizioni a esso collegate a partire dall’antichità. La farina, impastata con acqua, lasciata lievitare, passata nel fuoco appare infine come pane: una realtà precisa, effettiva, ma anche un simbolo, un linguaggio, cioè un sistema di segni concreti che permette di stabilire una sapienza pratica. La materialità dell’alimento sta in una rete di significati e di valori in cui si producono trasposizioni, metafore. Il pane è un alimento che ci nutre, che ci dà la vita, è un alimento solido che si impone innanzitutto ai nostri sensi. Basti pensare al profumo del pane appena sfornato che un tempo al mattino presto si sentiva nelle vie dei paesi, passando accanto al negozio del panettiere: il profumo precede il pane stesso, raggiunge le nostre narici, che lo riconoscono, e fin dal mattino trasmette loro un sentimento di vita. Ma anche la vista è coinvolta e noi vediamo il pane nelle sue diverse forme, create soprattutto in Italia: dalla grissia alla biova, alla ciabatta, alla rosetta, alla scarpetta… Infinite forme dovute alla fantasia e alla tradizione locali, tutte capaci di far sì che il pane diventi una presenza, si imponga e chieda rispetto.
Nelle generazioni passate, le quali conoscevano la fame di pane e sovente non osavano sperare di mangiare se non pane, vi era addirittura una sorta di venerazione nei confronti di questo straordinario alimento. L’ho scritto e non posso non ricordarlo nuovamente: a casa mia verso le sette del mattino, prima che io andassi a scuola e mio padre a lavorare, mia madre tornava dal panettiere e deponeva sul tavolo della stanza di ingresso una grande forma di pane, la grissia. La collocava accanto a un fiasco di vino, a un orciolo di olio e a una saliera, il tutto ricoperto da una tovaglia da lei ricamata con la scritta «l’olio, il pane, il vino e il sale siano lezione e consolazione». Chi entrava in casa mia vedeva in questo tavolo posto al centro un invito a sedersi, a mangiare un boccone, a condividere il pane, a bere insieme un po’ di vino…

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele) e Ostuni (Brindisi).
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2008 è stato invitato, in qualità di “esperto”, alla XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.
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