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Enzo Bianchi: la speranza nel dopo nasce dall’amore per l’oggi

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Enzo Bianchi: la speranza nel dopo nasce dall’amore per l’oggi
18/01/2023

Liberamente tratto da:
«Il cristianesimo è un inno alla vita e non al dolore», Intervista a Enzo Bianchi di Antonio Gnoli, La Repubblica “Robinson”, 24 dicembre 2022

Guida alla lettura

In questa prima uscita del 2023, proponiamo un ampio estratto di una recente intervista di Antonio Gnoli a Enzo Bianchi, per l’inserto “Robinson” di La Repubblica.
Nostro compagno di cammino da tanti anni, Bianchi ripercorre qui alcuni temi ampiamente trattati dalla nostra rubrica: la fatica della vecchiaia; la contestazione, evangelicamente documentata, della mentalità doloristica di un certo cattolicesimo; il conseguente dovere, umano e cristiano, di lenire il più possibile la sofferenza dei malati e garantire a tutti una morte dignitosa; il rapporto di comunione profonda con la natura e le sue creature; il valore della solitudine come condizione necessaria di pensiero e relazione; la capacità di aprire la vita alla gioia, ma anche alle amarezze, cercando di attraversare le avversità senza rinnegare l’amore dato e ricevuto; la fiducia in un “dopo” in cui non sarà il nulla a prevalere, ma la vita in una pienezza, in questo mondo, neppure immaginabile, ed estesa agli animali, agli alberi, ai fiori, alle erbe aromatiche che oggi allietano la nostra vita terrena (indimenticabile una sua riflessione di alcuni anni fa: «Che paradiso sarebbe senza Fido?»). Alcuni di questi temi, come la vita eterna, sono eloquenti solo per chi crede in una presenza “altra” che ci ha voluti nella libertà e per amore, e ci attende alla fine del tempo; altri temi, la maggior parte, lo sono per tutti coloro che vogliano davvero realizzare la propria umanità in modo autentico e compiuto.
Ma c’è anche altro. C’è, sullo sfondo, l’infinita pena per la vicenda di Bose che conduce, in primo piano e senza giri di parole, al tema del tradimento da parte di coloro che scegliamo come amici e fratelli: vertice di slealtà rispetto al quale l’amore può vincere, pur non cancellando l’abisso di dolore. E un attaccamento al mondo di quaggiù che ha placato in Bianchi le angosce dell’infanzia, alimentate da una visione troppo astratta dell’aldilà e dall’idea plurisecolare che una vita vera e giusta fosse fatta solo di rinunce e sacrifici. Un attaccamento che si fa abbraccio totale con la natura, sempre generosa di bellezza e semplicità, fino all’inedita (e per molti scandalosa) riflessione: «Per capire chi siamo non bisogna disprezzare il mondo, ma amarlo e lasciarsene attrarre», e all’audace esortazione: «Ama la terra come te stesso».
Soprattutto questo vogliamo augurare alle nostre lettrici e ai nostri lettori per il nuovo anno appena iniziato: di riscoprire l’infinita bellezza dei boschi, delle montagne, dei fiumi, dei mari, per trarne luce che illumini i giorni tristi e imparare a donare pace e futuro a ogni forma dell’essere.

L'intervista

Tre anni sono trascorsi da quando Enzo Bianchi non è più a Bose, nella comunità che ha fondato e governato. Un esilio che somiglia a un editto medievale. […] La natura umana ha la capacità di lenire le ferite, ridimensionare i drammi, curare i traumi. Il tempo è una buona misura per chiudere questioni che si credevano insanabili. E quelle dell’ex priore di Bose? Rivedo Enzo Bianchi. La sua energia che convoglia nella parola mi sembra immutata. Come immutata è la scrittura, diretta e forte. Ha da poco pubblicato un piccolo libro per Il Mulino, “Cosa c’è di là. Inno alla vita”. Una meditazione su che cosa ci aspetta, ammesso che si creda. […]
[…]
Ti sei ritirato nella tua terra di origine, il Monferrato.
«Non è stato facile, una prova ulteriore vissuta nella solitudine».
A un monaco la solitudine non dovrebbe pesare.
«Ho sempre pensato che la solitudine è una condizione che richiede la presenza degli altri. Altrimenti si è soli. E vulnerabili».
[…]
Il prossimo anno compirai 80 anni. Che tempo pensi di vivere?
«È un’età per me faticosa».
Il sottotitolo del tuo nuovo libro è “Inno alla vita”. L’hai vissuta con pienezza?
«Pienezza significa appunto non lasciare fuori niente: le delusioni e la gioia, le amarezze e il rinascere. Quello che si è stati e ciò che diventiamo. L’inno alla vita, più che un punto finale, somiglia a un esclamativo. Bene. Vediamo cosa c’è dopo».
Grande questione. Leggendoti ti ho percepito fiducioso.
«Come potrei non esserlo. Lo dico da cristiano».
Come immagini questo “oltre”?
«Da bambino ero perplesso o meglio angosciato ogni qualvolta mi parlavano dell’aldilà».
Cosa ti turbava?
«Era come se quel tempo senza fine fosse occupato interamente dalla contemplazione beata del divino. Un’immagine che provocava in me una forte angoscia, tanto più acuta in quanto evidente era il mio rifiuto di distaccarmi dalla vita terrena. Te lo vedi un bambino dentro questo fotogramma? Col tempo ho ricomposto l’immagine».
Vi hai messo più colore o cosa?
«Vi ho introdotto la convinzione che una vita vera non è fatta solo di rinunce e sacrifici, ma ispirata a un grande insegnamento: per capire chi siamo non bisogna disprezzare il mondo, ma amarlo e lasciarsene attrarre».
Non c’è il rischio di fraintendere questo amore così terreno?
«Il rischio, l’errore, il peccato ci sono sempre. Ma quello che intendo ribadire è l’indissolubile legame tra spirito e corpo. Il corpo vive dello spirito e non c’è spirito senza il corpo. Come monaco per tutta la vita mi sono sforzato di sentire questo abbraccio con la natura. Con il bosco, la terra, gli animali. E quando avverto una tale sensazione comprendo il senso della comunione che è più della semplice solidarietà. E tutto ciò mi induce a sospettare di aver scritto e pensato troppo».
Cosa te lo fa supporre?
«In questi anni finali mi sembra di aver accentuato l’attenzione alle cose più semplici della natura. Mi sorprendo davanti agli alberi e a volte mi pare spontaneo parlare con essi, e resto incantato dalle erbe aromatiche, dai fiori, dall’animale selvatico che mi attraversa la strada. C’è una profondità di destino, in tutto questo, che mi commuove. Non pensavo di potere amare la terra così intensamente da giungere a formulare il comandamento “ama la terra come te stesso”».
Non è una forma di spinozismo?
«Non è panteismo il mio, né idolatria. Davvero, amo questa terra perché vengo dalla terra e ritornerò ad essa, e sento un grande debito verso la natura».
E come se rivestissi la speranza di foglie e di rami, di vento e di aria.
«Beh, la grande speranza è quella che ritrovo nella Bibbia quando dice che ci saranno un cielo e una terra nuovi e che in questo mondo nulla andrà perduto ma tutto sarà trasfigurato».
Qual è la forza capace di trasfigurare tutto questo?
«La identifico nell’amore, un sentimento che non mi ha mai abbandonato e che ha dato senso alla mia vita, soprattutto nell’incontro con le vite degli altri. Ti confesso che non rimpiango nulla, perché tutto quello che ho fatto l’ho vissuto fino in fondo».
Avverto come un’amarezza dalle tue parole, come se questo amore fosse stato messo a dura prova dal tradimento e dalla slealtà.
«Credo che quello che ciascuno ha vissuto non possa essere dimenticato. Anche quando perdoniamo, la ferita resta dentro di noi. E terribile riconoscere che l’amore possa essere tradito, ma è destino dell’amore che, anche quando è tradito, possa continuare a esistere e non debba essere smentito. Dopotutto, è la grandezza dell’amore umano: ci offre l’opportunità di vincere sulla condizione negativa della morte. E vincere dunque anche sul tradimento. Non lo cancella ma lo vince anche quando non si riesce a contenere il dolore che ci provoca».
Questo tuo accenno al dolore vorrei spostarlo su un altro piano. Tutto il tuo discorso è un grande inno alla vita. Ma quando la vita sta finendo, tu dici, e lo dico con parole elementari e dirette, non è giusto affidarsi al dolore, alla sua illusoria grandezza.
«Mi sento distante da un’interpretazione dolorista del cristianesimo. Penso che il dolore e le sofferenze siano insensate. E in fondo dove c’è una persona – un uomo o una donna – che soffre, lì si è chiamati a starle accanto, spesso senza parole, perché le parole possono essere inadeguate, ma sapendo che la resistenza al dolore, il combatterlo, è una battaglia di umanesimo e di cristianesimo. Se non fossimo capaci di affrontare questa battaglia, non saremmo neppure capaci di compassione. Ecco, per dirla in maniera più diretta, occorre attraversare il dolore dell’altro senza sublimarlo, ma contrastarlo per renderlo almeno sopportabile».
E questo vale anche per il fine vita?
«Non può essere un’eccezione, per quanto alla fine possa sembrare di esserla».
Spiegati.
«Perché l’uscita dalla vita deve essere un’esperienza così dolorosa? E da questo interrogativo che sorge un’ulteriore domanda: perché si continua a chiedere di morire presto?».
La risposta tu la dai in “Cosa c’è di là”, quando scrivi che «il dolore è inumano e per questo non oso condannare chi si suicida o chiede di essere aiutato a porre fine alla sofferenza».
«Sono profondamente convinto che occorra morire conservando la propria dignità».
[…]

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. E’ stato priore dalla fondazione del monastero sino al 25 gennaio 2017: gli è succeduto Luciano Manicardi, poi sostituito, nel gennaio 2022, da Sabino Chialà.
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.

Antonio Gnoli (Roma, 1949) è un giornalista e scrittore italiano. Dopo un’esperienza al Manifesto, è entrato a La Repubblica, dove ha ricoperto la carica di caporedattore delle pagine culturali. Si è gradualmente specializzato in interviste a intellettuali e artisti, che ha spesso approfondito in volumi di grande interesse culturale e sempre aperti all’oggi: «La nostalgia dello spazio», con Bruce Chatwin (Bompiani, 2000); «Sanguineti’s song: conversazioni immorali», con Edoardo Sanguineti (Feltrinelli, 2006); «La luce dell’ateo», con Gianfranco Ferroni (Bompiani, 2009); «I corrotti e gli inetti: conversazioni su Machiavelli», con Gennaro Sasso (Bompiani, 2013); «La mente apocalittica: conversazioni su Dante», con Carlo Ossola, Giacomo Marramao, Andrea Mazzucchi e Gennaro Sasso (Treccani, 2021).
Importanti anche le collaborazioni con il filosofo e storico della filosofia Franco Volpi (1952-2009), con il quale ha curato opere di Freud, Rémi Brague, Reinhard Brandt e Ferdinand Bordewijk. Dal loro sodalizio intellettuale sono nati anche «I prossimi titani: conversazioni con Ernst Jünger» (Adelphi, 1997); «Il dio degli acidi: conversazioni con Albert Hofmann» (Bompiani, 2003); «L’ultimo sciamano: conversazioni su Heidegger» (Bompiani, 2006); «I filosofi e la vita» (Bompiani, 2010).
Gnoli si è occupato di Rainer Maria Rilke, scrittore, poeta e drammaturgo austriaco di origine boema, fra i più importanti di lingua tedesca del XX secolo; di Alexandre Kojève, filosofo russo fra i massimi interpreti della lezione hegeliana; e del romanziere, poeta, saggista e pittore statunitense John Dos Passos, di cui ha curato “The 42nd Parallel” (tradotto da Cesare Pavese nel 1933) che, insieme con “Nineteen” e “The big money” (che Pavese tradusse nel 1937), forma la trilogia “U.S.A.” (1938).
Nel 2016 ha pubblicato per Laterza, con Francesco de Gregori, “Passo d’uomo”, biografia del cantautore, e nel 2019, per Marsilio, “Grand hotel Scalfari. Confessioni libertine su un secolo di carta”, dialogo serrato con Eugenio Scalfari in collaborazione con il giornalista Francesco Merlo.

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