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Morte, il fine o la fine?

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04/03/2015

Tratto da: Antoine Compagnon, Il fine e la fine
In: Un’estate con Montaigne, Adelphi, Milano 2014, pag. 101-104

Guida alla lettura

Nel 2012 Antoine Compagnon, docente di letteratura francese e comparata alla Sorbona di Parigi, ha condotto una trasmissione radiofonica sul pensiero di Michel de Montaigne: nonostante il periodo di programmazione (luglio e agosto), l’orario (intorno a mezzodì) e la brevità delle puntate (pochi minuti al giorno), il programma ha ottenuto un grandissimo successo. Dall’iniziativa è stato tratto il libro “Un été avec Montaigne”, pubblicato in Italia da Adelphi con il titolo di “Un’estate con Montaigne”, da cui traiamo questo breve capitolo sulla morte e sul rapporto che l’uomo dovrebbe intrattenere con essa.
Dal brano emerge una notevole variabilità nel pensiero di Montaigne: una variabilità che, in definitiva, rende ragione del fatto che tutti noi sappiamo ben poco della morte e di che cosa essa realmente rappresenti nel corso della vita – se la fine di tutto o un passaggio verso un differente stato dell’esistenza. Ne conseguono tanti spunti di riflessione, anche in contrasto fra loro, non sempre coerenti e lineari, che hanno però il grande pregio di ispirare la nostra intelligenza e di orientarla nella ricerca sul mistero in assoluto più impenetrabile che avvolge le nostre storie. Ne evidenziamo quattro:
- nella prima parte dei Saggi, Montaigne sposa le tesi degli antichi stoici, secondo cui il solo modo per superare la paura della morte è affrontarla giorno dopo giorno nel pensiero, spogliandola a poco a poco della sua apparenza spaventosa e giungendo a un perfetto dominio dei propri stati emotivi;
- più tardi, Montaigne sembra rivalutare l’inconsapevolezza del popolo minuto – in passato quasi dileggiata – e giunge alla conclusione che la vera saggezza di fronte alla morte è «l’indifferenza delle persone semplici», simile al sublime distacco di Socrate al momento dell’esecuzione capitale;
- corollario di questo secondo orientamento è, secondo Montaigne, che «la vita deve avere se stessa come solo obiettivo e come solo disegno» e che la morte è solo la fine (in francese, bout), e non anche il fine (but), della vita. A nostro avviso si tratta di un corollario mal posto perché vivere in pienezza, se può essere talora il frutto del non pensare al problema della morte, ben più spesso è il risultato di un’esistenza estremamente consapevole di se stessa, e quindi anche della propria inevitabile fine;
- in altre parole, una vita davvero realizzata non richiede necessariamente, e anzi il più delle volte esclude, la cecità del semplice: sembra confermarlo lo stesso Montaigne, in un ulteriore sussulto del pensiero, quando afferma – sempre nel resoconto di Compagnon – che «la premeditazione della morte è premeditazione della libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a servire... Il saper morire ci affranca da ogni sudditanza e da ogni vincolo».
Ogni uomo, ogni donna dovrebbe poter giungere a questa forma di suprema libertà. Ma l’esperienza ci insegna qualcosa di più complesso: non esistono, in realtà, il puro saggio e il semplice assoluto, colui che domina perfettamente il sentimento della morte e colui che, ignorandolo, conduce una vita elementare e felice. Tutti noi, secondo i momenti e gli stati d’animo, proviamo ora paura, ora indifferenza, ora sgomento – e talora persino desiderio. La morte resta un mistero insondabile, e ciò che tutti conosciamo con certezza è solo il dolore per la morte di chi abbiamo amato. Il cammino resta incerto, e a volte neppure una fede salda può illuminarlo sino a sconfiggere le tenebre. Tanto più sono importanti, allora, la reciproca solidarietà e la capacità di camminare insieme in questa vita.
Da sempre si discute per capire se il pensiero di Montaigne abbia avuto un’evoluzione nel passaggio da una redazione all’altra dei Saggi, oppure se sia stato sin dall’inizio disordinato, plurale, in movimento. Ad ogni modo c’è un argomento, che gli sta molto a cuore, sul quale le sue opinioni sembrano mutare nel corso del tempo: la morte. Un importante capitolo del primo libro, “Filosofare è imparare a morire”, che prende in prestito il titolo da Cicerone, pare ispirato al più severo stoicismo: «Il fine della nostra corsa è la morte, ed è la morte l’oggetto a cui ineluttabilmente miriamo: se ci atterrisce tanto, come possiamo pensare di avanzare anche solo di un passo senza ambascia? Il rimedio dell’uomo del volgo è non pensarci affatto. Ma da quale bestiale idiozia può mai derivargli una così grossolana cecità? … Spogliamo questo nemico [la morte] della sua stranezza, frequentiamolo, avvezziamoci a lui, cercando di non pensare a nient’altro più spesso che alla morte» (I, 19, 128-32).
Il saggio deve dominare le proprie passioni, e dunque anche la paura della morte; dal momento che la morte è inevitabile, occorre ammansirla, farci l’abitudine, pensarci costantemente, al fine di contenere lo spavento che ci ispira questo avversario inesorabile.
Al termine dei Saggi, tuttavia, Montaigne sembra essere giunto, osservando l’atteggiamento di rassegnazione dei contadini di fronte alla peste e alla guerra, alla conclusione che non ci si prepara alla morte mediante un esercizio della volontà, e che la vera saggezza è l’indifferenza delle persone semplici, non meno nobile di quella di Socrate condannato a darsi la morte:
«Turbiamo la vita con il pensiero della morte e la morte con il pensiero della vita. La prima ci angustia, la seconda ci atterrisce. Non è contro la morte, cosa di brevissima durata, che ci prepariamo. Un quarto d’ora di patimenti senza conseguenze né danno non merita istruzioni particolari. A ben guardare, ci prepariamo contro le preparazioni alla morte ... Ma a mio giudizio la morte è solo la fine della vita, non il suo fine. E’ il suo termine, il suo estremo, ma non il suo oggetto. La vita deve avere se stessa come solo obiettivo e come solo disegno» (III, 12, 1632-33).
A Montaigne piacciono i giochi di parole: la morte è la fine (bout), non il fine (but), della vita. La vita deve guardare alla vita, e la morte verrà da sé.
Ma vi è stata un’evoluzione in Montaigne, a questo riguardo, nel corso del tempo? Non è certo. Nel capitolo “Filosofare è imparare a morire” Montaigne dava molti consigli sotto forma di antitesi così sofistiche da far dubitare della sua intima adesione alla tesi espressa.
«Non ci è dato sapere dove la morte ci aspetti, aspettiamola ovunque. La premeditazione della morte è premeditazione della libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a servire. Non c’è male alcuno nella vita per colui che ha capito che essere privati della vita non è un male. Il saper morire ci affranca da ogni sudditanza e da ogni vincolo” (I, 19, 132-33) .
Sembra quasi che l’intelletto di Montaigne voglia convincere l’immaginazione, senza però riuscire a credere davvero in quel che dice, come se ripetesse una lezione. Si ha persino l’impressione che Montaigne voglia fare dell’ironia su questa lotta contro la morte, una battaglia persa in partenza: «Se si trattasse di un avversario che si può evitare, consiglierei di munirsi delle armi della codardia» (131), ovvero di darsi alla fuga.
Anche riguardo all’atteggiamento da tenere dinanzi alla morte, nel corso dei Saggi Montaigne non mostra una vera e propria evoluzione: rimane esitante. Come si vive meglio? Pensando sempre alla morte, come vorrebbero Cicerone e gli stoici, oppure pensandoci il meno possibile, come Socrate e i contadini? Combattuto fra malinconia e gioia di vivere, Montaigne tergiversa a lungo – come tutti noi, del resto –, e alla fine arriva alla conclusione che aveva enunciato sin dall’inizio: «Voglio che la morte mi sorprenda mentre sono nell’orto a piantare i cavoli» (135).

Biografia

Michel de Montaigne
Michel Eyquem de Montaigne nasce a Bordeaux nel 1533 da una famiglia di recente aristocrazia. Educato in latino sin da piccolo, secondo i principi dell’Umanesimo, apprende il francese solo nell’adolescenza. Studia greco antico, retorica, teatro e, successivamente, giurisprudenza, la disciplina che gli aprirà le porte della carriera politica.
Nel 1557, a 24 anni, diviene consigliere alla “Cour des Aides” di Périgueux, che in seguito sarà unita al Parlamento di Bordeaux. Dal 1561 al 1563 fa parte della corte di Carlo IX. Nel 1965 sposa Françoise de La Chassaigne: la coppia avrà sei figlie, di cui sopravvivrà la sola Léonor. Nel 1568 esce la sua prima opera, la traduzione dal latino della “Teologia naturale” di Raymond Sebond.
Dal 1570, ritiratosi nelle sue terre, si dedica agli studi e alla meditazione. Ammiratore di Virgilio e di Cicerone, sceglie l’uomo, e se stesso in particolare, come oggetto di studio dei “Saggi”. Commentando i classici – Plutarco, Cicerone, Seneca, Lucrezio – analizza la condizione umana con rara capacità d’introspezione e giunge a condannare le dottrine filosofiche troppo rigide, esercitando un’influenza decisiva sul pensiero francese e occidentale dei secoli successivi.
Fra il 1580 e il 1581 viaggia in Francia, Svizzera, Germania e Italia: visita Verona, Venezia, le Marche e la Toscana. Raccoglie le proprie annotazioni nel “Journal du voyage en Italie par la Suisse et l’Allemagne”, che verrà pubblicato solo dopo un lungo oblio, nel 1774.
Nominato sindaco di Bordeaux, rientra in patria e per quattro anni si dimostra valente amministratore e abile diplomatico. Alla scadenza del mandato, nel 1585, nella regione di Bordeaux scoppia un’epidemia di peste. Montaigne fugge e, dopo l’epidemia, si ritira nuovamente nel suo castello a Saint-Michel-de-Montaigne, nel Périgord, per continuare la stesura dei “Saggi”. Lo morte lo coglie nel 1592, in piena attività filosofica e letteraria.
Gli scritti di Montaigne sono contrassegnati da uno scetticismo raro al tempo del Rinascimento: egli ritiene che la ragione non possa raggiungere certezze assolute in nessun campo del sapere. L’educazione, l’amicizia, la virtù, il dolore, la morte sono i temi più frequentati e approfonditi. Montaigne, in particolare, afferma l’esigenza di un sistema educativo che privilegi l’intelligenza, e non solo la memoria, e miri alla formazione di uomini e donne dotati innanzitutto di spirito critico.

Antoine Compagnon
Antoine Compagnon è nato a Bruxelles nel 1950. Ingegnere “sui generis”, è docente di letteratura francese e comparata alla Sorbona di Parigi e alla Columbia University di New York, nonché professore al Collège de France. Cavaliere della Legion d’onore, dal 2006 fa parte dell’Haut Conseil de l’Éducation francese e dal 2007 è professore onorario all’École des Hautes Études Commerciales de Paris e presidente del comitato scientifico dell’École Normale Supérieure.
Collaboratore di numerose riviste letterarie, ha curato l’edizione di opere di Proust (“Sur Baudelaire, Flaubert et Morand”), Ruskin (“Sesame et les lys”) e Baudelaire (“Les fleurs du mal”). Ha inoltre pubblicato, fra gli altri: “Nous, Michel de Montaigne” (1980); “Proust entre deux siècles” (1989; Proust tra due secoli, Einaudi 1992); “Les cinq paradoxes de la modernité” (1990; I cinque paradossi della modernità, Il Mulino 1993); “L’esprit de l’Europe” (1993); “Baudelaire devant l’innombrable” (2003); “Les Antimodernes, de Joseph de Maistre à Roland Barthes” (2005); “Un été avec Montaigne” (2013; Un’estate con Montaigne, Adelphi 2014).
Parole chiave di questo articolo
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