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La morte, momento di pace e comunione

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19/01/2011

Tratto da:
Enzo Bianchi, Il pane di ieri, Einaudi, Torino, 2008

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

In questo commovente e delicato racconto, Enzo Bianchi rievoca il modo in cui la morte era affrontata e vissuta ai tempi della sua infanzia, nel piccolo paese dell’Astigiano dov’è nato e cresciuto. La vita familiare costituiva un flusso unico e compatto, e la morte si inseriva in quel flusso con molta più naturalezza di oggi.
Nessuna idealizzazione del buon tempo andato: le persone faticavano ad amarsi e stare insieme anche allora, e la vita non era certo avara di dolori e di privazioni. Ma era più raro che le difficoltà, come spesso accade oggi, giungessero a spezzare le relazioni, e così quella comunione quotidiana di gesti e di affetti allenava poco per volta a vivere nella pace e nella condivisione anche il momento del trapasso. E l’esperienza della morte vissuta all’interno delle relazioni, e non contro o al di là di esse, sarà così decisiva per il piccolo Enzo che anche la perdita della madre in giovanissima età si rivelerà per lui un «momento di vita e di comunione».
In un’epoca come quella attuale, in cui l’emarginazione fisica ed emotiva del morente negli ospedali e nelle case di riposo sembra essere l’unica risposta possibile al “problema” della morte, l’esempio di quel mondo contadino ormai lontano può assumere un grande valore anche per noi. Non tanto per recuperare modelli di vita familiare forse irrimediabilmente perduti, quanto per riscoprire l’importanza dell’amore e della perseveranza in ogni fase della vita, anche quella dell’addio, perché «a morire si impara, e si impara soprattutto vedendo altri morire nella quotidianità, in comunione e nella pace».
Come la nascita e la festa avvenivano in casa, nel quotidiano, così anche la morte era parte di quell’unico flusso vitale e familiare. Morire a casa propria era il desiderio del malato e dei parenti che tutto predisponevano a tal fine. Oggi, al contrario, la maggior parte delle persone muore in ospedale o al ricovero e tutto concorre affinché il malato concluda nell’estraneità di un luogo «altro» un’esistenza che sovente ha faticato a trovare un «focolare» attorno al quale edificarsi. Eppure, mentre ciascuno nasce senza averlo imparato, a morire si impara, e si impara soprattutto vedendo altri morire nella quotidianità, in comunione e nella pace.
Nella mia infanzia il paese intero era reso partecipe degli ultimi momenti di vita di un moribondo: le notizie sulla salute circolavano senza il consueto tono di pettegolezzo curioso, ma con discrezione commossa; le visite al capezzale dapprima si intensificavano poi si diradavano per rispettare la fatica e il dolore crescente; il suono delle campane e i movimenti del parroco scandivano l’avanzare dell’agonia. In casa poi, tutti erano al capezzale del malato, dai vecchi ai bambini ciascuno seguiva con partecipazione l’evolversi del male e, giunto il momento, si riuniva in preghiera attorno al prete che amministrava l’estrema unzione. Il moribondo, che nel corso della sua vita aveva assistito tante volte alla morte degli altri, capiva che era giunta la sua ora: questo, il più delle volte, lo rappacificava, gli dava la forza e la serenità per un ultimo «grazie», un sorriso, una parola o un gesto di affetto. Nulla di spaventoso in un evento pur così triste e doloroso, solo un commiato tra persone che magari avevano come tutti faticato ad amarsi, ma che avevano condiviso la vita e che in comunione vivevano la morte: nessuno moriva solo! Per questo era tanto temuta la morte improvvisa che rendeva impossibile questa preparazione e questa condivisione di affetti.
Ricordo quando, un pomeriggio del settembre 1951, mentre ero in strada a giocare, sentii rintoccare la campana dell’agonia: capii che suonava per mia madre e corsi a casa mentre sopraggiungeva il parroco. Quando, uscito il prete, l’amica di mia madre – quella che mi aveva portato al battesimo – mi introdusse nella stanza da letto, ascoltai le parole che mia madre rivolse a me, a mio padre e all’amica: una povera donna di grande fede che se ne andava a poco più di trent’anni, lasciando suo marito e l’unico figlio nella solitudine e nella miseria. A me disse solo: «Vedrai, io di là farò più di quanto ho potuto fare di qui per te...». Non ho ricordi del funerale, non so nemmeno dire se vi partecipai, ma da allora imparai anch’io ad andare al cimitero ogni domenica pomeriggio dopo i vespri: una visita doverosa sì, ma fatta con affetto, recitando qualche preghiera e salutando chi non c’era più e aveva lasciato un vuoto pesante per un bambino di otto anni. Eppure confesso che ebbi il dono di vivere la morte di mia madre come momento di vita e di comunione.
Più tardi, molto più tardi avrei capito con la ragione quello che avevo sperimentato in modo così naturale: l’importanza di non morire soli! Se la vita è relazione con gli altri, anche il morire va custodito in questo spazio di comunione. Lo sforzo che oggi tutti sembrano voler fare per allontanare la morte significa invece imporre al morente di morire «prima» rispetto all’ora della morte fisica: chi sta per morire è considerato un testimone scomodo della morte che attende tutti. Viene perciò emarginato, anche fisicamente, dagli spazi comuni, e si finisce in tal modo per privarlo della «propria» morte. Sì, nascere e morire così, non soli ma in comunione, è un grande dono che libera dall’angoscia e rappacifica con la vita, in una dimensione che va al di là della morte, perché più forte della morte è l’amore.

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele) e Ostuni (Brindisi).
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2008 è stato invitato, in qualità di “esperto”, alla XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.
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