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Un luogo dove curarsi, vivere e lavorare

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14/04/2010

Tratto da:
Madre Teresa con Lucinda Vardey, Il cammino semplice, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1995

Si ringrazia l’Editore per la gentile concessione

Guida alla lettura

In questo brano, Madre Teresa di Calcutta illustra le logiche di funzionamento di un lebbrosario indiano. L’esperienza, seppure su dimensioni molto più estese, ricorda quella del piccolo centro canadese per malati terminali di AIDS, illustrata da Marie de Hennezel (Un luogo di miracoli quotidiani). Nonostante la diversità dei contesti socioculturali e delle problematiche cliniche, ci sembra che dal racconto (che non fa alcun esplicito riferimento alla religione e all’impegno apostolico delle suore) emergano alcune indicazioni potenzialmente utili anche per il nostro ambiente, e in particolare per le esperienze di cure palliative che si stanno ormai moltiplicando in molti Paesi occidentali:
- le moderne terapie, limitando il contagio e la necessità di isolamento, impediscono alla lebbra di agire come fattore di disgregazione familiare: un’esigenza che molti “hospice” occidentali, per esempio, fanno propria prevedendo orari di visita pressoché illimitati (anche di notte) e organizzando spazi riservati ai familiari dei degenti (cucine, soggiorni per riposare o giocare con i bambini, locali per lavare e stirare gli indumenti). In questo modo, oltre a venire incontro a obiettive necessità logistiche, si crea una situazione psicologicamente vicina all’ambiente domestico;
- il centro di accoglienza per malati cronici è concepito anche come luogo di vita e di lavoro, sino a configurarsi come «un villaggio vero e proprio», in cui «c’è lavoro regolare per tutti»: la cura del malato va di pari passo con la tutela della sua dignità, e nessuno – compatibilmente con le proprie condizioni – si sente inerte e inutile;
- il coinvolgimento dei malati meno gravi nella cura di quelli in condizioni più critiche, oltre a dar loro una motivazione di vita, innalza la qualità dell’assistenza perché – senza nulla togliere all’importanza della presenza medica e paramedica – «capiscono molto meglio le sofferenze e le difficoltà degli altri pazienti»: emerge l’importanza del “contatto paziente-paziente”, che potenzia il più noto e spesso ancora insufficiente “rapporto medico-paziente”.
A fianco di questi spunti, il racconto ci trasmette anche il senso di una realtà etica e sociale durissima, spesso disumanizzata dalla sofferenza: la diagnosi precoce della lebbra è fondamentale, ma «i poveri non sono abbastanza istruiti per sapere di che cosa soffrono» e così, quando appaiono le ulcerazioni, è troppo tardi per rimediare al danno anatomico e funzionale; i genitori che ricoverano i loro bambini ammalati «dicono sempre che non appena i figli staranno meglio torneranno a riprenderli, ma non lo fanno mai». Povertà, ignoranza, abbandono dei più indifesi: tristi elementi di un dramma che purtroppo non fatichiamo a ritrovare anche nelle nostre società e che ci ricordano come la prevenzione di tante “lebbre” che sfigurano la nostra vita possa nascere solo da rapporti umani e sociali più giusti.
Oggi i lebbrosi, sapendo che possono ricevere aiuto e guarire, fanno una vita quasi normale. Non è più necessario, se si ha la lebbra, scomparire e nascondersi; e questo significa che tutta la famiglia ora può vivere insieme senza timore di infezioni. Il figlio di un lebbroso non è più un lebbroso.
Oltre quarant’anni fa abbiamo deciso di fondare sotto un albero a Titagarh, molti chilometri fuori da Calcutta, una clinica mobile per lebbrosi. Vedevamo i pazienti due volte alla settimana e negli altri giorni ci occupavamo di chi soffriva di malnutrizione e ci recavamo a casa dei malati a visitarli. Poi, di sabato, facevamo le pulizie per loro.
Oggi abbiamo un meraviglioso centro che si chiama Gandhiji Prem Nivas, che è quasi un villaggio vero e proprio. Distribuiti lungo la linea ferroviaria, tutti gli edifici sono dipinti di colori sgargianti, allegri: rossi e azzurri e verdi. Ci sono laboratori, dormitori, cliniche, ambulatori, una scuola, un day hospital e anche capanne individuali per le famiglie – oltre a serbatoi che forniscono d’acqua l’intera comunità. Dentro il cortile interno c’è una statua di Gandhi.
Prem Nivas è stato costruito dai lebbrosi stessi ed è un luogo dove possono sia vivere sia lavorare. Il terreno per costruire il centro, quando ci è stato dato, nel 1974, era una discarica delle ferrovie; noi abbiamo cominciato a costruirvi semplici capanne col tetto di paglia e a poco a poco si è trasformato in qualcosa di davvero bello.
Fratello Vinod, che gestisce Prem Nivas, ci dà altre informazioni su com’è oggi questo luogo: «Abbiamo millequattrocento casi di lebbra in cura regolare ogni mese e, dal 1958, ne sono stati registrati trentottomila. Molti sono stati dimessi ma le persone che assistiamo ora vivranno altri venti-trent’anni, perciò le Missionarie della Carità avranno da lavorare almeno per questo periodo. Ora che la lebbra può essere controllata, sono sicuro che in futuro non vedremo più tante malformazioni – il piano del governo è di eliminare la lebbra dall’India entro il Duemila».
«La diagnosi precoce è fondamentale, e per questo la nostra clinica è così importante. La malattia attacca il sistema immunitario del corpo e si diffonde per via aerea, perciò non occorre stare a lungo a contatto con un paziente per esserne infettati. Se il sistema immunitario è forte, però, non si viene contagiati. Non esiste una vaccinazione, ma c’è un test per stabilire chi è immune. E se qualcuno viene contagiato, nella fase precoce può essere guarito con i farmaci».
«La lebbra esiste ancora soprattutto tra gli strati più poveri della società. I poveri non sono abbastanza istruiti per sapere di che cosa soffrono, finché non si manifestano le malformazioni. E quando si manifesta la perdita della sensibilità nelle mani e nei piedi e sono apparse le ulcerazioni, è naturalmente troppo tardi per porre rimedio al danno, sebbene a questo punto sia ancora possibile arrestare il progresso della malattia. Tuttavia, i lebbrosi con evidenti malformazioni si disperano e non vogliono vivere in una società che li rifiuta. Perciò noi, qui, offriamo loro un posto e un lavoro, ed entro breve tempo la fede, la speranza e l’autostima del paziente ritornano».
«Al centro ricoveriamo molti mendicanti che prima vivevano per la strada o alla stazione. Prendiamo anche bambini piccoli con la lebbra. I loro genitori dicono sempre che non appena i figli staranno meglio, torneranno a riprenderli, ma non lo fanno mai. Dunque questa è anche la Casa dei ragazzi e delle ragazze e i suoi ospiti, quando crescono, di solito si sposano qui, trovano un lavoro, una casa loro e restano con noi».
«Tutto il lavoro viene svolto dai pazienti: sono loro che insegnano agli altri a vestirsi, a fare iniezioni e a tenere in ordine l’ambulatorio; sono loro che si prendono cura dei loro simili. Capiscono molto meglio di noi le sofferenze e le difficoltà degli altri pazienti. Naturalmente i fratelli, che sono personale paramedico, sono preparati all’assistenza dei malati e in questo servizio affiancano i medici, i quali una volta alla settimana operano e ci dedicano il proprio tempo gratuitamente; il contatto paziente-paziente, però, è sempre preferibile».
«Siamo del tutto autosufficienti – abbiamo i nostri orti, e quando c’è qualcosa in più lo offriamo alle altre Case. Abbiamo pesce nel vivaio e capre e altri animali nella piccola fattoria, oltre a un reparto di telai a mano (in cui vengono tessuti i sari delle sorelle), calzolai e falegnami, muratori e meccanici. C’è lavoro regolare per tutti».

Biografia

Anjeza Gonxhe Bojaxhiu nasce in Albania nel 1910. A diciotto anni entra nell’ordine religioso delle “Suore di Nostra Signora di Loreto”. Nel 1931, preso il nome di Maria Teresa, si trasferisce in India per completare gli studi. L’incontro con la povertà estrema di Calcutta la spinge a una profonda riflessione interiore che, più tardi, definirà “chiamata nella chiamata”.
Nel 1948 riceve l’autorizzazione a vivere da sola nella periferia della metropoli e, due anni dopo, fonda la congregazione delle Missionarie della carità, il cui obiettivo sarà quello di prendersi cura dei “più poveri dei poveri” e di “tutti coloro che si sentono non voluti e non amati dalla società”. Nel 1952 organizza la prima casa di accoglienza per i morenti, cui seguiranno lebbrosari e orfanotrofi. E’ l’inizio di una diffusione che interesserà diversi Paesi in tutto il mondo e che otterrà numerosi riconoscimenti internazionali: il premio Papa Giovanni XXIII e il premio Kennedy, il premio Nehru per la promozione della pace e della comprensione internazionale e il premio Albert Schweitzer, sino al Nobel per la Pace, di cui viene insignita nel 1979.
Nonostante il grande successo delle sue opere e la sua personale notorietà, Madre Teresa rimane per tutta la vita un personaggio controverso: alcune inchieste giornalistiche discutono per esempio il suo incoraggiamento ad accettare la povertà e la sofferenza come segni dell’amore divino (una tesi, purtroppo, assai diffusa nel cattolicesimo tradizionale e popolare): l’impostazione delle cure viene criticata anche dalla stampa medica, soprattutto per lo scarso ricorso ai farmaci per il trattamento del dolore.
Nel marzo 1997, anziana e malata, Madre Teresa lascia la guida delle Missionarie della Carità. Muore a Calcutta pochi mesi dopo, il 5 settembre. Nel 2003 la Chiesa cattolica la proclama beata.
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