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Tulipani

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09/09/2009

Tulips
in: Sylvia Plath, Opere, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2002

Guida alla lettura

Sylvia Plath scrive questa lirica nel marzo 1961, durante un ricovero in ospedale. La motivazione, di per sé, non è drammatica: un’appendicectomia superata senza conseguenze. Ma la donna è da tempo affetta da una grave depressione che, due anni dopo, la spingerà a togliersi la vita.
Il suo personalissimo vissuto della situazione le consente quindi di lasciarci una testimonianza straordinaria del senso di abbandono, rassegnazione, solitudine, alienazione da sé che può cogliere una persona ammalata nel momento in cui “consegna il suo nome e i suoi vestiti alle infermiere, la sua storia all’anestesista, il suo corpo ai chirurghi”. E ci conferma sul piano poetico quanto già sapevamo dagli studi clinici, e cioè che la depressione, nera ancella della malattia, può peggiorare sino a più di otto volte la percezione soggettiva del dolore. In questo contesto deformato dal male di vivere, persino la pace e la quiete, che la poetessa dice di “imparare” distesa nel suo letto, sono sensazioni pesanti e inerti, tipiche di chi combatte sempre più stancamente con il demone della patologia psichiatrica non curata.
Il turbine di sentimenti negativi sfocia infine in una vera e propria ossessione per un mazzo di tulipani, donato da un inconsapevole visitatore. Rossi, vividi, quasi insolenti, quei fiori parlano alla sua ferita, divorano il suo ossigeno, concentrano la sua attenzione, prima «felice di vagare e riposare senza farsi coinvolgere». La potente immagine poetica ci interroga senza ambiguità: quanto spesso siamo inconsapevoli, distratti, distanti di fronte alla sofferenza altrui, e – credendo di donare conforto – finiamo per inasprire l’inquietudine di chi andiamo a visitare?
In “Tulipani” compare per la prima volta il tratto lungo di sospensione alla fine del verso, che sarà caratteristico delle ultime poesie di Sylvia: come annota Anna Ravano, nell’impareggiabile commento che accompagna l’edizione italiana di Mondadori, esso appare «nei momenti in cui il filo logico si spezza o si sfiora l’indicibilità» (op. cit., p. 1650). Dunque, un elemento solo apparentemente secondario, e che esprime invece con plasticità l’efficacia del silenzio, a volte unica “parola” autentica e umana – purché carico di ascolto e di rispetto – di fronte all’abisso non dicibile del dolore.
I tulipani sono troppo eccitabili, qui è inverno.
Guarda com’è tutto bianco, quieto, coperto di neve.
Sto imparando la pace, distesa quietamente, sola,
come la luce posa su queste pareti bianche, questo letto, queste mani.
Non sono nessuno; non ho nulla a che fare con le esplosioni.
Ho consegnato il mio nome e i miei vestiti alle infermiere,
la mia storia all’anestesista e il mio corpo ai chirurghi.

Mi hanno sistemato la testa fra il cuscino e il risvolto del lenzuolo
come un occhio fra due palpebre bianche che non vogliono chiudersi.
Stupida pupilla, deve assorbire tutto.
Le infermiere passano e ripassano, non danno disturbo,
passano come gabbiani diretti nell’interno, in cuffia bianca,
le mani affaccendate, ciascuna identica all’altra,
sicché è impossibile dire quante sono.

Il mio corpo è un ciottolo per loro, lo accudiscono come l’acqua
accudisce i ciottoli su cui deve scorrere, lisciandoli piano.
Mi portano il torpore nei loro aghi lucenti, mi portano il sonno.
Ora che ho perso me stessa, sono stanca di bagagli –––
la mia ventiquattrore di vernice come un portapillole nero,
mio marito e mia figlia che sorridono dalla foto di famiglia;
i loro sorrisi mi si agganciano alla pelle, ami sorridenti.

Ho lasciato scivolar via le cose, cargo di trent’anni
ostinatamente aggrappata al mio nome e al mio indirizzo.
Con l’ovatta mi hanno ripulito dei miei legami affettivi.
Impaurita e nuda sulla barella col cuscino di plastica verde
ho visto il mio servizio da tè, i cassettoni della biancheria, i miei libri
affondare e sparire, e l’acqua mi ha sommerso.
Sono una suora, adesso, non sono mai stata così pura.

Io non volevo fiori, volevo solamente
giacere con le palme arrovesciate ed essere vuota, vuota.
Come si è liberi, non ti immagini quanto –––
E’ una pace così grande che ti stordisce,
e non chiede nulla, una targhetta col nome, poche cose.
E’ a questo che si accostano i morti alla fine; li immagino
chiudervi sopra la bocca come un’ostia della Comunione.

Sono troppo rossi anzitutto, questi tulipani, mi fanno male.
Li sentivo respirare già attraverso la carta, un respiro
sommesso, attraverso le fasce bianche, come un neonato spaventoso.
Il loro rosso parla alla mia ferita, vi corrisponde.
Sono subdoli: sembrano galleggiare, e invece sono un peso,
mi agitano con le loro lingue improvvise e il loro colore,
dodici rossi piombi intorno al collo.

Nessuno mi osservava prima, ora sono osservata.
I tulipani si volgono a me, e dietro a me alla finestra,
ove una volta al giorno la luce si allarga lenta e lenta si assottiglia,
e io mi vedo, piatta, ridicola, un’ombra di carta ritagliata
tra l’occhio del sole e gli occhi dei tulipani,
e non ho volto, ho voluto cancellarmi.
I vividi tulipani mangiano il mio ossigeno.

Prima del loro arrivo l’aria era calma,
andava e veniva, un respiro dopo l’altro, senza dar fastidio.
Poi i tulipani l’hanno riempita come un frastuono.
Ora s’impiglia e vortica intorno a loro così come un fiume
s’impiglia e vortica intorno a un motore affondato rosso di ruggine.
Concentrano la mia attenzione, che era felice
di vagare e riposare senza farsi coinvolgere.

Anche le pareti sembrano riscaldarsi.
I tulipani dovrebbero essere in gabbia come animali pericolosi,
si aprono come la bocca di un grande felino africano,
e io mi accorgo del mio cuore, che apre e chiude
la sua coppa di fiori rossi per l’amore che mi porta.
L’acqua che sento sulla lingua è calda e salata, come il mare,
e viene da un paese lontano quanto la salute.

Biografia

Sylvia Plath nasce a Boston (Stati Uniti) nel 1932. Il padre, di origini tedesche, è professore di entomologia; la madre proviene da un’austera famiglia austriaca e in casa parla solo tedesco.
Talento precoce, Sylvia pubblica la prima poesia nel 1940, a soli otto anni. Nello stesso anno, il padre muore di embolia in seguito a un’operazione chirurgica. Questo evento segna profondamente l’equilibrio della bambina, che in età adulta soffrirà di una grave forma di depressione alternata a momenti di intensa vitalità creativa.
Nel 1953 compie il primo tentativo di suicidio, cui segue il ricovero in un istituto psichiatrico, dove le viene diagnosticato una patologia nota come “disturbo bipolare”. Uscita dall’ospedale si laurea, con lode, nel 1955. Pochi mesi dopo ottiene una borsa di studio per l’università di Cambridge, dove approfondisce gli studi e continua a scrivere poesie. Al campus conosce il poeta inglese Ted Hughes, che sposa nel 1956 e dal quale avrà due figli, Frieda Rebecca e Nicholas. Nei tre anni successivi, insegna allo Smith College.
Trasferitasi con il marito in Inghilterra, Sylvia pubblica nel 1960 la prima raccolta di poesie, “The Colossus”. L’anno dopo subisce un aborto spontaneo: diverse liriche fanno riferimento a questo evento. Il matrimonio si incrina, anche per un tradimento di Ted, e la coppia finisce per separarsi.
Apparentemente rasserenata, Sylvia si stabilisce a Londra con i figli. Ma l’inverno del 1962 è per lei molto duro, con frequenti ricadute nella depressione. Nel gennaio 1963 pubblica con lo pseudonimo di Victoria Lucas il romanzo “La campana di vetro”, in cui descrive la crisi che l’aveva colpita nel 1953. Un mese dopo si toglie la vita, soffocandosi con il gas.
Vincitrice del Premio Pulitzer nel 1982, Sylvia Plath è ricordata come una delle più grandi poetesse statunitensi del Novecento.
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