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Spiragli di luce

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08/09/2010

Tratto da:
Mario Tobino, Per le antiche scale, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1972, p. 87-91

Selezione del brano, guida alla lettura e biografia a cura di Emanuela Aliquò

Guida alla lettura

Nel romanzo “Per le antiche scale” (che sono quelle del manicomio di Maggiano, un antico convento), lo scrittore e psichiatra Mario Tobino, con senso poetico e umana partecipazione, trasfigura la propria esperienza di medico a diretto contatto con la sofferenza psichica e ci permette di osservare la malattia mentale attraverso lo sguardo clinico del dottor Anselmo, che all’interno della struttura trascorre buona parte della sua esistenza.
La pagina che proponiamo si colloca fra i racconti dedicati ai ritratti della follia, ed è ritagliata dal capitolo intitolato “Davvero Anselmo è vicino alla verità?”. Il luogo dell’azione è il “sette”, il reparto “Agitate”: donne sventurate la cui patologia, con il trascorrere degli anni e l’evoluzione della psichiatria, non si manifesta più «uguale a un vulcano», ma è resa «ovattata, dissimulata, intontita» dall’arrivo dei nuovi medicamenti.
Una domenica mattina, quando «per il freddo i suoni arrivano più chiari», il dottor Anselmo, in visita nel reparto, esprime alla capo infermiera il proprio stupore per aver notato un pianoforte nella stanza della socioterapia: è l’incipit che dà il via al ritratto della nostra protagonista e alle riflessioni che ne conseguono.
Per chiunque abbia letto il romanzo, indimenticabile è la figura di Lucia Pedretto, la professoressa di matematica un tempo «giovane e bella e dalla spiccata intelligenza», che un giorno d’inverno, alla vista del pianoforte arrivato da poco, riesce a sciogliersi e a sorprendere tutti con la limpidezza e l’armonia del suo mondo interiore, raccontato attraverso la grazia della musica. La Pedretto era una malata conosciutissima e abitava il reparto da ben ventisei anni: eppure, che conoscesse la musica, nessuno lo sapeva. Quale lontano ricordo o fulmineo pensiero l’avrà poi indotta a sbattere d’un colpo il coperchio sui tasti, così da sembrare sull’orlo di una crisi di furia?
«Non comprendiamo, non sappiamo ascoltare», osserva il dottor Anselmo che non riesce a strappare un bis musicale ma le cui parole conclusive riconoscono l’esistenza di una comunicazione con il malato libera e alternativa rispetto a quella verbale, non facilmente e non sempre intelligibile, ma sempre meritevole di grande attenzione.
Il racconto suggerisce diversi spunti di riflessione sulla malattia mentale, anche trasversali: dall’importanza dell’ascolto e dell’attenzione alle storie di vita (e al bisogno narrativo di ogni persona) alla necessità di umanizzare i luoghi di cura; dal fondamentale riguardo alla realtà dei familiari, spesso angosciati e soli di fronte all’oscuro disturbo psichiatrico, all’importanza di un solido lavoro di rete fra le risorse di cura; dal potere straordinario della musica, «regina delle terapie attive», alla valorizzazione delle potenzialità e delle parti sane ancora presenti nell’animo di chi porta il peso di malattie così misteriose e spesso invincibili.
«Lo sa della signora Pedretto?»
«No. Chi? La madre della professoressa? Che è successo?»
«Era venuta a trovare la figlia e la Lucia si è messa a suonare. E’ successo ieri l’altro.»
«Conosceva la musica? Non l’aveva mai detto.»
«Non lo sapevamo neppure noi.»
La Pedretto, la Lucia Pedretto era una malata conosciutissima. Da ventisei anni abitava quel reparto, una cameretta, una cella dalle pareti nude. Da giovane era stata bella e di spiccata intelligenza, a ventidue anni già professoressa di matematica. Figlia unica, i genitori l’adoravano. Il padre medico, anch’egli non comune, appassionato di storia.
Nel colmo del suo splendore Lucia fu colpita dalla malattia mentale. Il pensiero le si frantumò, il discorso divenne incomprensibile, vocabolario triturato e a caso gettate per aria manciate di striscioline; gli affetti scomparvero, l’espressione del volto un lago ghiacciato. E senza un perché, senza alcuna ragione all’improvviso si scatenava in furia, aggrediva, lacerava, vomitava parole volgarissime, da domandarsi come le aveva imparate.
I genitori consumarono i loro risparmi per nasconderla nelle case di cura; e poi si rassegnarono al manicomio. Anselmo per anni ogni mattina, ogni dopopranzo, a volte persino la notte, la intravedeva dallo spioncino della cella, un enigma, freddezza e furore. Per giorni interi, a cominciare dall’alba, seduta nel letto, teneva sulle ginocchia un grosso registro – e su quello, per pagine e pagine, in silenziosa concentrazione, segnava numeri e numeri, cifre, frammenti di operazioni algebriche prive di ogni bandolo. In altro registro, in righe ordinate e fitte, stendeva una sequela di vocaboli, soldati in fuga, confusione di divise, di reparti, di mostrine.
I genitori ogni tre giorni regolarmente venivano a trovarla. Entravano nella cameretta, si sedevano e rimanevano immobili, zitti, come statue. La figlia continuava a vergare su i grossi registri. Nei primi tempi avevano tentato di parlarle, le avevano sorriso, fatto domande. La figlia si era scatenata in tremende furie. Ora la guardavano per circa due ore, poi si scambiavano un piccolo cenno, si alzavano, uscivano dalla cameretta. Il padre all’ingresso aveva depositato su una mensola i grossi registri.
Gli anni trascorrono. I manicomi, da secoli bui e immobili, castelli impenetrabili, aprono spiragli, inferriate si sminuzzano come denti marci, pareti crollano giù. Sono arrivati nuovi medicamenti e insieme la fiducia, la speranza, un corteo di nuovi metodi, soffi, venti di libertà.
Anche la Pedretto viene toccata da questa nuova era e non guarisce, no, ma è come misteriosamente udisse il nuovo clima. Un giorno lei stessa domanda di uscire dalla cameretta e si affaccia al corridoio, si avvicina alle altre malate. Poi si mette a cucire, entra nella sala di socioterapia.
I genitori assistono a questa modificazione. Sono pratici ormai, non si illudono, lunga esperienza, ripercosso dolore. E’ un progresso solo esterno, in realtà lo stesso gelo sull’orlo di esplodere. Continuano a visitare ogni tre giorni la figlia. Forse più perversa la loro pena.
Ed ecco il pianoforte. Nessuno, né le malate né le infermiere né il medico sono a conoscenza che la Lucia sa suonare il pianoforte.
La madre per caso si presenta alla visita da sola. Al solito si siede davanti alla figlia, ora nella stanza di socioterapia. La figlia china su una tela.
D’un tratto la Lucia posa il cucito, si alza, si dirige al pianoforte, accomoda lo sgabellino, si siede.
La memoria freschissima. Erano passati ventisei anni. Il primo tocco su i tasti fu di straordinaria grazia. La madre seguiva le mosse della figlia, anche lei musicista. Suonò per mezz’ora, sembrava raccontasse. Per le guance della madre scendevano silenziose le lacrime.
D’un colpo Lucia si interrompe, sbatte il coperchio, si alza, nei tratti una bieca luce. Sembra sull’orlo di una furia.
La caporeparto continua a sussurrare i particolari. Lucia, seduta a pochi metri, è china sul cucito.
Anselmo le si avvicina: «Posso ascoltare anch’io la sua musica?»
Lentamente la Pedretto alza il viso. Gli occhi sanno di fango invernale, le ombre del viso percorse dai lampi dell’ira. Risponde acre: «No!»
«Perché?»
“Per il negativo.”
«Quale negativo?»
La voce di Lucia si fa violenta, percorsa da una acuta impazienza, dalla rabbiosa delusione: «Ho detto per il negativo. Il negativo. Chiaro, no?» (…)
Si allontana il dottore dal reparto; la infermiera gli tiene dietro. Naviga la sua mente, flutti da ogni parte, tumulto di interrogazioni: «Cosa è quella voce che mi sembra di udire, timbro segreto dentro le parole? Non comprendiamo, non sappiamo ascoltare. La Pedretto, la Lucia Pedretto, con la musica ha espresso un suo mondo armonioso, un mondo limpido dentro di sé. E per quale ragion non usa più il nostro vocabolario? alla nostra maniera? Forse ne ha un altro che noi non afferriamo? per noi indecifrabile e per lei semplice matematica? In certi momenti mi illudo di sfiorare la verità. Basterebbe ancora un poco. Poi di nuovo buio, e ancora buio».

Biografia

Mario Tobino nasce a Viareggio il 16 gennaio del 1910. Secondo di quattro figli (il padre è farmacista), inizia gli studi liceali a Massa Carrara, ma ottiene la maturità a Pisa, da privatista. Nel 1936, all’Università di Bologna, consegue la laurea in Medicina. Vicino al mondo letterario fin dagli anni Trenta, si mantiene indipendente nei confronti delle diverse correnti, attento sempre a rappresentare la concretezza della vita. I suoi versi e la sua prosa sono ispirati dai grandi temi: la pietà del dolore, la nobiltà dei sentimenti, la bellezza della natura, l’amore, la solidarietà, la trasparenza nel modo di essere.
Nel 1939, dopo aver esordito come poeta con “Poesie” (1934), ecco “Amicizia”, opera letteraria data alle stampe durante un’esperienza lavorativa in manicomio, dopo le specializzazioni in Neurologia-Psichiatria e Medicina legale.
Nel 1940 viene inviato sul fronte libico: la drammaticità della guerra verrà narrata ne “Il deserto della Libia” (‘52). Due anni dopo, congedato, torna in Italia e pubblica “Veleno e amore”, “Il figlio del farmacista”, “La gelosia del marinaio”. L’anno successivo aderisce alla Resistenza e il segno letterario di tale impegno storico sarà “Il clandestino” (1962), con il quale si affermerà al Premio Strega.
Nel dopoguerra sviluppa la professione di psichiatra (dirigerà l’ospedale psichiatrico di Maggiano, nelle colline lucchesi) e prepara le opere letterarie più apprezzate: nel 1953 pubblica il romanzo “Le libere donne di Magliano”, il suo vero capolavoro, nel quale rappresenta, con uno sguardo carico di sensibilità e profonda partecipazione, la vita delle malate di mente in condizione di internamento.
Del 1972 è “Per le antiche scale”, un altro romanzo caratterizzato dal binomio letteratura-sofferenza mentale e dalla necessità di raccontare e far conoscere il dolore quotidianamente incontrato. Nel 1979, con il romanzo “Il perduto amore” (protagonisti un giovane ufficiale medico e una crocerossina) ritorna al tempo della guerra libica.
Tobino compone anche libri di viaggi e un’opera teatrale, “La verità viene a galla” (1987).
Muore ad Agrigento l’11 dicembre 1991.
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