Guida alla lettura
Questo nucleo di pensiero è talmente fondativo nella visione cristiana che persino la sofferenza che il credente patisce per propria colpa può diventare, se vissuta senza rinnegare l’amore, luogo in cui Cristo si manifesta e dona nuova fiducia nel futuro. Una fiducia incomparabilmente più potente di quella che possiamo suscitare noi esseri umani, perché non è solo generica speranza che le cose possano volgere al meglio, ma vita nuova, tempo propizio (kairós), forza efficace per cambiare in profondità (metánoia). Scrisse un giorno Jean Daniélou, teologo francese: «Nulla è irrevocabile, né fallimenti né infedeltà… Ritornare a Dio è sempre un inizio assoluto, perché la potenza di Dio è senza limiti». Per il credente, un’apertura di orizzonti così assoluta è davvero la “buona notizia” (euanghélion) capace di dare sostegno e orientamento a tutta la vita.
Si faccia però attenzione. Questo canto alla debolezza non è un canto al male, alla sofferenza, alla prova, alla miseria – come Friedrich Nietzsche ha imputato al cristianesimo –, ma è una rivelazione: la debolezza di fatto può essere una situazione in cui, se chi la vive sa viverla con amore (cioè continuando ad amare e ad accettare di essere amato), la potenza di Cristo raggiunge la sua pienezza. Ma questo messaggio, peraltro centrale nel Nuovo Testamento, è scandaloso e può sembrare follia (cf. 1Cor 1,18-31), e noi cristiani abituati a tali parole siamo disposti a ripeterle ma non a viverle nell’amore: quest’ultima è la vera sfida, perché la debolezza è fondativa dell’antropologia cristiana.
Confessiamolo però con onestà: quando osserviamo la vita nel suo svolgersi quotidiano, quando tentiamo di leggere la storia e le storie, constatiamo che sono la potenza, la forza, l’arroganza, la violenza ad avere successo, e perciò ci diventa arduo scorgere nella debolezza una possibile beatitudine. Siamo capaci di accogliere la nostra debolezza, che si presenta a noi sovente come umiliazione? Siamo disposti a vedere in essa un’occasione di spogliazione, per essere condotti all’«unica cosa necessaria» (Lc 10,42)? Non solo individualmente, ma come comunità, come chiesa siamo capaci di leggere nella debolezza il linguaggio della «discreta caritas», dell’amore discreto che è vissuto quotidianamente senza alzare la voce, senza voler «dare testimonianza» a noi stessi?
Forse solo quando smettiamo di parlare di poveri, di handicappati, ma siamo di fronte a un uomo o a una donna in carrozzella, a una persona colpita nei mezzi abituali di comunicazione; quando ci troviamo davanti a un corpo ferito e dilaniato dalla malattia e dal dolore; quando stringiamo le mani di un povero che le ha tese verso di noi, mettendo le nostre mani nelle sue, forse solo allora comprendiamo il dramma della debolezza e siamo capaci di discernere dove Cristo ha messo la sua tenda.
C’è poi anche una forma particolare di debolezza, che non può essere dimenticata: quella dell’umiliazione che nasce dal nostro peccato, a volte dal nostro vizio o peccato ripetuto, in cui cadiamo e poi ci rialziamo, cadiamo e poi ci rialziamo ancora… Siamo umiliati davanti a Dio e agli uomini, anche in questo sia come singoli cristiani sia come chiesa. «Bene per me essere stato nella debolezza» (Sal 119,71), prega il salmista davanti a Dio, ma è bene anche per la chiesa essere umiliata, conoscere giorni di non-successo, di sterilità, di impotenza tra le potenze di questo mondo, a volte addirittura di insignificanza. Non è stato forse questo il tragitto di Gesù nell’ultima parte del suo ministero, dopo i successi e la favorevole accoglienza iniziale? Sì, dobbiamo nuovamente confessarlo: facile a dirlo, difficile da accettare e soprattutto da vivere senza tradire l’amore.
San Bernardo, colui che conobbe forse il più grande successo possibile per un monaco nella storia, sperimentò pure un’ora di umiliazione, di fragilità e di miseria anche esistenziale. Fu, per sua stessa ammissione, una crisi spirituale e morale che lo obbligò a vivere per un anno fuori dal suo monastero. In quel tempo comprese molte cose della vita cristiana che non aveva capito prima; comprese soprattutto che nella debolezza si impara meglio la relazione con gli altri e con Dio, e conobbe veramente cos’è la grazia, la misericordia di Dio. E così giunse ad esclamare: «Optanda infirmitas!», «O desiderabile debolezza!» (Discorsi sul Cantico dei cantici 25,7). Sì, è possibile giungere ad affermare questo, ben sapendo però che nel mestiere di vivere la debolezza appare sempre anche come prova, come faticosa prova.
Biografia
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2008 è stato invitato, in qualità di “esperto”, alla XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.