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Ma liberaci dal male

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23/07/2008

Enzo Bianchi
Avvenire, 11 maggio 2008

Si ringrazia l'Editore per la gentile concessione
Il male è un enigma che suscita da sempre interrogativi sofferti: “Da dove viene il male? Com’è possibile il male? Perché esiste?”. E l’uomo tenta e ritenta delle risposte senza tuttavia giungere a trovarne di soddisfacenti. Di fronte al male, anche il credente non smette di chiamare in causa il suo Dio: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” e nella preghiera del Padre nostro insegnata da Gesù ai suoi discepoli l’ultima invocazione è “ma liberaci dal male” o “liberaci dal Maligno” (Mt 6,13). Così la preghiera cristiana per eccellenza, che inizia con una invocazione a Dio come “Padre”, si conclude con una invocazione contro il Maligno, il male! Si invoca il Padre perché “venga il suo Regno” nella consapevolezza però che a questa venuta c’è una realtà che lo contraddice e per questo si prega il Padre di compiere un’opera di liberazione. È con questa invocazione che il credente esprime la fede e la speranza che il male, per quanto radicale, che il Maligno, per quanto potente, può essere sconfitto e quindi non appartiene all’ordine irreversibile dell’umanità e del mondo.
Nella Bibbia troviamo numerosi tentativi di reagire all’enigma del male: si è cercata la causa del male di chi soffre nella sua malvagità, secondo la teoria della retribuzione terrena per cui i giusti sono benedetti e i malvagi trovano rovina; si è pensato alla sofferenza come a una pedagogia e a una purificazione; si è ipotizzata l’ereditarietà della colpa per cui i peccati vanno imputati a una responsabilità collettiva... Il tentativo di risposta che ha avuto una risonanza prevalente, almeno nell’occidente cristiano, è quello tratteggiato nelle prime pagine della Genesi che, interpretate come lettura “storica”, sono apparse come il racconto della caduta dell’uomo e dell’ingresso del male nel mondo creato: così dal primo peccato dell’uomo istigato dal Maligno sarebbero derivati tutti i mali.
Ma questi capitoli della Genesi – testi sapienziali e non storici – vogliono essere racconti “dell’inizio” che proiettano ai primordi dell’umanità non ciò che è cronologicamente originario, ma ciò che è umanamente basilare, archetipo costante nell’umanità. Aliena dal testo biblico è l’idea che il peccato dia origine alla storia, perché solo l’amore di Dio che crea e vuole l’altro da sé è all’origine della storia. Questi testi affermano con forza che l’uomo non è frutto del caso e/o della necessità, ma della libertà di Dio e del suo amore, dicono che l’uomo è preceduto da Dio e che è destinato a Dio, affermano con il loro valore antropologico che non il male e il peccato sono l’ultima parola della storia umana, bensì la promessa di Dio insita nella sua volontà creatrice.
Tuttavia i primi capitoli della Genesi ci dicono anche che c’è nella creazione una presenza – il “serpente” – una dominante capace di sedurre l’umanità: non è una persona, anzi è una non-persona, l’anti-persona; è una dominante che agisce “tra” gli esseri umani e la realtà come rovina, divisione, disintegrazione: una potenza senza volto che si mostra efficace nel cuore degli uomini. Questa potenza è in grado di stravolgere le parole di Dio all’umanità e promette che mangiando dell’albero vietato non si morirà (cf. Gen 3,4). Ecco allora nascere la paura della morte che diventa il movente profondo della tentazione: il Maligno fa una promessa illusoria ma potente e seducente che dischiude la possibilità di vittoria sulla morte nella via della autoaffermazione, del possesso, dell’accaparramento, della voracità, del consumo. Così l’uomo e la donna compiono un itinerario che va dalla non accettazione del limite – mangiare i frutti di tutti gli alberi eccetto uno – alla paura della morte fino alla elaborazione di una contro-verità in cui il desiderio di vita, di immortalità, di onnipotenza produce una nuova visione del mondo: il mondo appare preda, oggetto da carpire, da possedere, da dominare.
La paura della morte – “regina delle paure”, come la chiama il libro di Giobbe – induce l’uomo a preservare con qualsiasi mezzo la propria vita, a possedere per sé i beni della terra, a dominare sugli altri. Così l’uomo pensa, consapevolmente o meno, di assicurarsi vita abbondante, di poter combattere e lottare contro la morte anche senza gli altri e contro gli altri. Come risultato di questa paura della morte, c’è nell’uomo una tendenza egoistica che la tradizione cristiana chiama “philautía” (amore di sé) che spinge a contraddire ogni via di comunicazione e di comunione e a far regnare come “tramite”, “inter-mezzo”, il demonio.
Così la Lettera agli Ebrei esplicita questo legame tra paura della morte e male: «Gesù è diventato partecipe del nostro sangue e della nostra carne per rendere impotente, attraverso la morte, colui che ha il potere della morte, cioè il diavolo, e liberare quelli che per paura della morte sono alienati, soggetti a schiavitù per tutta la vita» (Ebr 2,14-15). Rivelazione audace che mostra come noi uomini siamo schiavi – perché la morte è istigazione al peccato e salario del peccato (cf. Rm 6,23) – a causa della paura della morte e per questo commettiamo il male.
Tutta la vita di Gesù – e non a caso il Vangelo pone all’inizio del suo ministero la lotta contro Satana e le tentazioni nel deserto – è stata una battaglia contro il Maligno e un’azione di liberazione di quanti erano in potere del diavolo, della morte, della malattia e del peccato. Gesù non si è interessato speculativamente al male, bensì si è accostato al male incarnato dalla malattia, dalla sofferenza, dalla morte, dal peccato in uomini e donne concrete, in vittime del male. La vita di Gesù è stata una liberazione dal male di quelli che lo hanno incontrato e hanno potuto essere salvati dalla loro fede destata dalla presenza di Gesù.
Secondo l’ottica del quarto Vangelo tutta la vita di Gesù può essere letta come un amare fino all’estremo, fino alla fine (cf. Gv 13,1): una lotta contro il male combattuta solo con l’amore, l’amore di Dio e l’amore degli uomini cui Gesù era inviato, amore fino alla fine. Epifania di questo amore è stata la sua morte-risurrezione: lui che aveva conosciuto da sempre nella sua carne la paura della morte, che aveva innalzato preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte (Ebr 5,7), che ha agonizzato alla vigilia della sua passione per paura della morte, vista come calice da bere per non venir meno all’amore, ha saputo vincere la paura della morte e andare verso di essa sempre liberamente e per amore.
Ed è proprio nella sua passione e morte che Gesù ha vinto la morte stessa, continuando ad amare concretamente gli uomini, anche i suoi nemici e uccisori, e amando anche Dio che lo abbandonava a quella morte ignominiosa e violenta. Nella passione-morte di Gesù è il suo amore vissuto fino all’estremo che ha lottato con la morte e l’ha vinta, e quindi ha vinto il male e il Maligno. Paolo può dunque gridare: “Dov’è, o morte la tua vittoria?” (1Cor 15,55) perché egli sa che Cristo è veramente risorto e che la risurrezione è potenza nello Spirito santo che vince Satana e ogni dominante, vince il male e ogni peccato. Ecco perché la risurrezione di Gesù Cristo e quindi la risurrezione di tutta l’umanità e la trasfigurazione di questo cosmo in terra nuova e cieli nuovi è la particolarità, la singolarità della fede cristiana. Il male è stato vinto per sempre, Satana è cacciato fuori e, come canta l’Apocalisse (21,4), è avvenuta la “morte della morte” e il Maligno è gettato nello stagno di fuoco per sempre, reso inoperante e inefficace nel suo agire contro tutta l’umanità redenta (cf. Ap 20,10).
Da questo deriva che noi cristiani, se aderiamo con tutto il nostro essere alla buona notizia della risurrezione, possiamo nutrire la speranza che il male e il Maligno, già vinti in Cristo, saranno vinti anche in noi. Gesù è il primogenito di molti fratelli e se noi alla sua sequela amiamo come lui ha amato, allora già adesso passiamo dalla morte alla vita (cf. 1Gv 3,14): amando noi combattiamo il male, amando lo vinciamo, amando partecipiamo alla vita stessa di Dio, di colui che è amore, secondo la definizione ultima e definitiva data dal Nuovo Testamento. Questa è la nostra fede e se noi aderissimo all’amore saremmo – secondo la definizione dei cristiani usata negli “Acta Martyrum” e da Tertulliano – tra coloro “che non hanno più paura della morte”.

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele) e Ostuni (Brindisi).
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2008 è stato invitato, in qualità di “esperto”, alla XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.
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