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Ad amare non si sbaglia mai

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26/10/2011

Paolo Ricca, Riforma, 6 aprile 2007

Guida alla lettura

Nella nostra rubrica abbiamo spesso sottolineato – soprattutto attraverso gli articoli di Enzo Bianchi e Luciano Manicardi, monaci di Bose – come il Cristianesimo non sia affatto ostile alle gioie della vita, e come solo una spiritualità deviata abbia potuto affermare nel corso dei secoli il valore salvifico della sofferenza. Da una lettura corretta del Vangelo, e della Bibbia in generale, emerge infatti che è l’amore, e non il dolore, a dare senso alla nostra esistenza purché, anche nei momenti di dolore, questo sì, accettiamo di continuare ad amare ed essere amati.
Oggi proponiamo una riflessione di Paolo Ricca, teologo della Chiesa Evangelica Valdese, che rispondendo a una lettrice del settimanale “Riforma” conferma questa tesi anche dal punto di vista protestante. Per il credente, tutte le cose di questo mondo – l’amore e la vita nelle loro diverse forme, la natura, la bellezza – meritano di essere apprezzate e gustate, perché Dio stesso le ha create e testimoniano il suo amore. Purché non divengano idoli e spingano la creatura a ribellarsi al suo creatore, sovvertendo il comandamento di Cristo che esorta ad amare innanzitutto Dio, poi gli altri “come noi stessi”, e infine tutto il resto, nella gratitudine e nella libertà. Una visione che dilata enormemente il cuore del credente e che ritroviamo nell’apostolo Paolo, in uno straordinario passaggio della prima lettera ai Greci di Corinto: «Il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1Cor 3,22-23).
«Ad amare non si sbaglia mai – conclude Ricca – purché si ami in Dio»: è questo il solo limite alla libertà del cristiano, contro ogni tentativo legalistico di mortificarne la vita. Un limite che per i laici potrebbe suonare così: «Ad amare non si sbaglia mai, purché amando si faccia sempre del bene, e mai del male, agli altri e a se stessi». Non è così scontato, se solo pensiamo alle tante forme di pulsione che chiamiamo “amore”, e che invece feriscono la fiducia, i sentimenti, la libertà, la dignità, l’integrità degli altri. Eppure l’imperativo etico a cui siamo chiamati sta tutto in questa semplice prassi, e a null’altro siamo tenuti per onorare la vita che alimenta i nostri giorni.
Leggiamo nella prima Lettera di Giovanni (2,15): «Non amate il mondo né le cose che sono nel mondo» (e lo stesso concetto è ribadito in altri passi del Nuovo Testamento). Più avanti Giovanni chiarisce meglio, parlando di «concupiscenza della carne e degli occhi» e di «superbia della vita». Se mi è chiara la negatività della “superbia”, non altrettanto mi sento di dire per le “concupiscenze” citate. Perché non dovremmo amare la bellezza, l’amore, l’arte, la natura e tutto ciò che rende piacevole la vita? Ne deduco che Giovanni intenda dire che «le cose che sono nel mondo» non devono diventare idoli, non devono cioè essere amate più di Dio…

Per capire bene l’invito della prima Lettera di Giovanni a «non amare il mondo né le cose che sono nel mondo» (2, 15), e a non lasciarsi determinare dalla «concupiscenza della carne e degli occhi» e dalla «superbia della vita» (2, 16), bisogna ovviamente chiarire che cosa significhino per Giovanni “mondo” e “concupiscenza”. La nostra lettrice, in realtà, dimostra di essere già abbastanza consapevole al riguardo: la sua lettera, a ben guardare, contiene già buona parte della risposta, che cercherò di integrare con qualche altra considerazione.
Che cosa significa “mondo” nel linguaggio di Giovanni? Significa, in fondo, un’unica cosa, anche se nei vari contesti in cui questo termine (in greco: kósmos) ricorre, può essere letto e interpretato con diverse sfumature: il “mondo” è, per Giovanni, la creatura (umana) che rifiuta il Creatore che l’ha creata. Quindi il “mondo” non è tanto la creazione quanto la creatura, la quale, senza che si capisca bene perché, anziché accettarsi come creatura e riconoscere, onorare e amare il suo Creatore, lo nega, vive senza di lui e anche, spesso, consapevolmente o no, contro di lui. Potremmo dire: l’uomo diventa “mondo” (nel senso che intende Giovanni) nel momento in cui rifiuta Dio e si pone come unico protagonista della sua vita e della sua storia. (…)
È in questo quadro che va collocato l’invito a «non amare il mondo», cioè a non amare il rifiuto di Dio da parte dell’uomo, a non compiacersi nel suo «no» a Dio. La «superbia della vita» ha un senso affine: è la presunzione temeraria, la fiducia spavalda dell’uomo che crede solo in se stesso e dichiara Dio irrilevante e superfluo, per non dire nocivo. Quanto alla «concupiscenza della carne e degli occhi» si può pensare ovviamente alle varie passioni che in un modo o nell’altro ci legano alle «cose che sono nel mondo» (I Giovanni 2, 15), quelli che Gesù chiamava «tesori sulla terra» (Matteo 6, 19) e che facilmente s’impadroniscono del nostro cuore e diventano il principale interesse della nostra vita, quasi la sua ragion d’essere. Ma in un senso più profondo possiamo pensare a quello che Agostino chiamava l’amor sui, l’amore di sé, per il quale facciamo ruotare la vita e il mondo intorno a noi stessi, come se fossimo il centro di entrambi. Nella vita cristiana c’è anche l’amore di sé, ma Gesù lo ha messo al terzo posto, preceduto dall’amore per Dio («con tutto il cuore, tutta l’anima, tutta la mente») e dall’amore per il prossimo («come te stesso», non di meno: Matteo 22, 37-39). La concupiscenza è l’amore di sé così forte da capovolgere le priorità stabilite da Gesù e mettere l’amore per noi stessi prima dell’amore per Dio e per il prossimo.
Come si vede, non amare il mondo con la sua concupiscenza non vuole affatto dire che non dobbiamo amare «la bellezza, l’amore, l’arte, la natura, e tutto ciò che rende piacevole la vita», come teme la nostra lettrice e come una lettura superficiale del passo potrebbe far supporre. Al contrario: la bellezza è da amare perché è un riflesso della bellezza di Dio. L’amore nelle sue tante forme è da amare perché è ciò che di più bello c’è nella nostra vita, ed è anch’esso un segno di Dio che è amore. L’arte è da amare perché è un modo nobile per cercare di penetrare nell’enigma della vita e del mondo, è anche un modo per rendere loro omaggio e per festeggiarli: in fondo l’arte è celebrazione, quindi una forma di preghiera. La vita è da amare, ma non solo la nostra, anche quella degli animali, dei fiori, delle piante, del colori, dell’acqua, dell’aria, del vento, della terra e del fuoco, di tutte le creature evocate da Francesco d’Assisi nel suo stupendo Cantico, perché la vita è bella, è Dio che l’ha inventata, voluta, suscitata e resa possibile. La natura è da amare sia perché è splendida (benché anch’essa attraversata, come la nostra esistenza, da un «gemito» e da un «travaglio»: Romani 8, 22), sia perché è opera «delle mani» (Salmo 19, 1) e «delle dita» (Salmo 8, 3) di Dio, ed è il teatro della sua gloria. Insomma: non bisogna aver paura di amare. Direi anzi: ad amare non si sbaglia mai. Purché si ami in Dio. In Dio possiamo amare tutto e tutti, non perché il nostro cuore sia capace di tanto, ma perché Dio rende tutto amabile.

Biografia

Paolo Ricca nasce a Torre Pellice (in provincia di Torino) nel 1936. Dopo aver conseguito la maturità classica a Firenze, studia Teologia a Roma, negli Stati Uniti e a Basilea (Svizzera), ove consegue il dottorato con una tesi sull’escatologia del Vangelo secondo Giovanni.
Consacrato pastore della Chiesa valdese nel 1962, esercita il ministero a Forano e a Torino, e segue il Concilio Vaticano II per conto dell’Alleanza Riformata Mondiale. Dal 1976 al 2002 insegna Storia della Chiesa e, per alcuni anni, Teologia Pratica presso la Facoltà Valdese di Teologia di Roma.
Membro per quindici anni della Commissione “Fede e Costituzione” del Consiglio Ecumenico delle Chiese (Ginevra), opera in diversi organismi ecumenici ed è per due mandati presidente della Società Biblica in Italia.
Attualmente è professore ospite presso il Pontifico Ateneo Sant’Anselmo di Roma e dirige la collana “Lutero. Opere scelte” dell’editrice Claudiana di Torino.
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