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Ricostruire l'essere, contro le forze del nulla

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29/04/2009

Tratto da:
Olivier Clément, La trasfigurazione del dolore, in "Il nuovo areopago", 1 (1985), p. 41-42. In: Comunità Monastica di Bose (a cura di), Letture dei giorni, Piemme, Casale Monferrato 1994, pag. 370-371

Guida alla lettura

Raramente una riflessione ispirata dalla fede religiosa riesce a parlare in modo tanto convincente anche ai non credenti come questo vibrante brano di Olivier Clément, teologo ortodosso francese del XX secolo.
Al centro del suo pensiero, la vita e l’esempio di quegli uomini e quelle donne che fanno di ogni loro atto una paziente ricostruzione «del tessuto dell’essere contro le forze del nulla», che sanno attraversare la stanchezza e la disperazione senza lasciarsene sommergere, che riescono a combattere il dolore del mondo senza farsene stritolare, anzi diventando – per sé e per gli altri – “sentieri” di vita e di resurrezione.
Qual è, secondo Clément, il segreto di queste persone, quale la forza che le anima? La certezza che, nella croce di Cristo, la morte è stata vinta per sempre, e che il male non ha e non avrà mai più l’ultima parola: una certezza che libera dalla paura del nulla e dell’oblio, una paura che non di rado ci spinge ad aggrapparci alla vita dimenticando gli altri, e spesso anche operando contro gli altri. Sempre tenendo presente, aggiunge però Clément, che del significato della sofferenza e delle risposte che ad essa si possono dare, «non si può parlare che a nome proprio, non per l’altro».
Un messaggio di fiducia e di umiltà, dunque, che può essere valido anche per chi, a fondamento della propria vita, non ponga necessariamente una fede religiosa: la lotta contro le forze del nulla può infatti essere combattuta anche da coloro che, in nome di un’etica laica della solidarietà, sanno farsi carico ogni giorno delle sofferenze degli altri e non rinunciano a ricercare il senso ultimo delle cose. Tutti, infatti, possiamo essere abitati da quel “coraggio di essere” di cui parla il teologo protestante Paul Johannes Tillich e che rappresenta la risposta più vera e consapevole alla “chiamata” a vivere in questo mondo, sia essa frutto del caso, di una scelta umana, o di una volontà creatrice che ci trascende.
In principio, e forse prima di ogni altra cosa, la croce pasquale risplende umilmente attraverso uomini e donne di cui segna il cuore e i quali instancabilmente ricostruiscono, rammendano il tessuto dell’essere contro le forze del nulla. Uomini e donne nei quali l’angoscia si trasforma in confidenza, la guerra in pace, l’odio di sé e degli altri in bontà quotidiana e disinteressata. Uomini e donne che presentono che la vera morte è dietro di loro, sepolta nell’acqua del loro battesimo e dunque che la morte biologica, davanti a loro, non è più che un passaggio, una “pasqua”.
Allora tutte le situazioni di morte della nostra esistenza, tutti i momenti di stanchezza, di derisione, di scoraggiamento, di disperazione, se noi li viviamo non lasciandoci sommergere dal nulla, ma stringendoci ai piedi della croce, possono divenire situazioni battesimali, pasquali, iniziazioni al centro dell’esistenza nelle quali la grazia di vivere ci è ridonata nella sua novità, nella sua nuova benedizione. La novità è il nome stesso dello Spirito, di cui Ireneo diceva che è “iuvenescens”: «Come quella dell’aquila sarà rinnovata la tua giovinezza» (Salmo 103, 5). Il cuore spezzato dalla sofferenza può allora trasformarsi da cuore di pietra a cuore di carne. Sono veri e reali solo quegli uomini che sono stati disperati, ma si sono lasciati salvare da Cristo.
Grazia strana, fragile, della convalescenza. Ma del senso della sofferenza, della maturazione che essa può generare non si può parlare che a nome proprio, non per l’altro. Rinascendo in questa maniera non abbiamo più bisogno di vittime, non abbiamo più bisogno di essere carnefici, per proiettare sull’altro la nostra angoscia, per dimenticare la nostra morte nell’esercizio più o meno cosciente di una tortura tanto più sottile e raffinata in quanto non è fisica, ma banale, quotidiana, psicologica.
Questi uomini, queste donne sanno che Dio non è un’idea, che il cristianesimo non è un’ideologia, perché l’ideologia riduce l’altro, mentre il cristianesimo l’apre sull’infinito; l’ideologia conosce in maniera possessiva, il cristianesimo priva del possesso. Cristo designa la persona al di là dei suoi ruoli, dei suoi condizionamenti, del suo peccato. «Colui che non ha peccato scagli la prima pietra» (Giovanni 8,7). «Nessuno ti ha condannato, neanch’io ti condanno; va’ e non peccare più» (Giovanni 8,10). «Oggi tu sarai con me in paradiso» (Luca 23,43).
È solo nella croce di Cristo che noi possiamo renderci vulnerabili al dolore dell’altro, combatterlo pazientemente, tenacemente, per ridurlo, senza esserne stritolati, perché noi sappiamo, malgrado le apparenze più sconcertanti, che la sofferenza e la morte non hanno l’ultima parola, perché noi sappiamo che la risurrezione è all’opera attraverso sentieri sconosciuti o mal conosciuti, e che noi stessi possiamo diventare questi sentieri. Allora tentiamo di essere dei viventi, dei veri viventi che sprigionano, senza neanche saperlo, attraverso le parole, i gesti, i silenzi, i sì o i no del quotidiano, ciò che Tillich chiamava il “coraggio di essere”.

Biografia

Olivier Clément, nato in Francia nel 1921 e morto lo scorso 15 gennaio, è stato uno dei teologi ortodossi più influenti del XX secolo. Nato e cresciuto in un ambiente ateo, arriva alla fede alla fine degli anni Quaranta, attraverso la lettura dei filosofi religiosi russi Nikolaj Berdjaev e Vladimir Losskij. Protagonista appassionato del dialogo ecumenico fra le diverse confessioni cristiane, nel 1998 viene invitato da Giovanni Paolo II a scrivere le meditazioni per la via crucis del Venerdì Santo.
La religione cristiana, per lui, non è un sistema astratto di dogmi e norme morali, ma un incontro, una concreta esperienza di vita, capace di dare risposte convincenti ai più profondi interrogativi dell’esistenza. Scrive nel 1996: «Il cristianesimo non è né moralismo né ritualismo, ma invocazione, forza, luce. Il cristianesimo non è un’imposizione ideologica – la vecchia eresia dei tempi della “cristianità” – né un comparto della cultura come tanti altri – la nuova eresia dei tempi della “modernità” – ma la densità, la profondità di ogni esistenza, nell’amore e nella libertà».
Così lo ha ricordato Enzo Bianchi all’indomani della morte: «Quest’uomo aveva davvero trovato nei tesori della chiesa antica trasmessi dall’ortodossia una luce interiore ancor più intensa di quella dei meriggi del suo amato Midi. Era una luce, quella della risurrezione, che Clément sapeva cogliere e tradurre in speranza anche nelle situazioni più difficili, anche per le persone che giacevano nelle tenebre, protagonisti di “memorie dal sottosuolo” chiamate a diventare testimonianze della grandezza e della dignità di ogni essere umano... Ci mancheranno la sua passione per l’unità dei cristiani, la sua perspicacia teologica, il suo desiderio di dialogo, la sua compassione per l’uomo sofferente. Anzi, non ci mancheranno, perché sono semi della Parola che egli ha saputo gettare con audacia, coltivare con cura e irrigare con sapienza: semi che il Signore stesso farà crescere, al di là della morte».
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