Guida alla lettura
Va detto con chiarezza: questa speranza non esime il cristiano dall’impegno quotidiano di mettere a frutto i propri talenti e realizzare in pienezza la propria esistenza. Ma rimane il fatto che egli crede in un Dio tanto più forte quanto più noi siamo deboli (cfr. 2Cor 12,10), e questo in virtù non di un “lieto fine” banale, ma del fatto che la forza dello Spirito sia davvero in grado di sovvertire i valori su cui gli uomini e le donne di ogni tempo fondano i propri giudizi: il successo, il possesso, la carriera, il denaro. Altre sono le logiche che orientano lo sguardo di Dio, e tanto basta perché anche un fallimento vero, reale, possa essere riscattato in una prospettiva sovrannaturale.
E per chi credente non è? Per chi assume uno sguardo laico sulla vita, tutto si gioca davvero qui e ora, senza possibilità di appello: ed è allora che il dolore per ciò che non è stato compiuto può diventare pervadente fino alla disperazione più radicale. La prima cosa da fare è dunque preparare con cura il proprio cammino nel mondo, sin dagli anni della giovinezza, mettendo a fuoco le proprie aspirazioni e attrezzandosi culturalmente per realizzarle, in modo da prevenire la possibilità stessa del fallimento. La seconda cosa è coltivare l’arte della resilienza, ossia la capacità di reagire positivamente ai rovesci della sorte e ripartire, sempre e comunque, su basi rinnovate: molti di coloro che hanno attraversato gli orrori del Novecento hanno fatto leva proprio su questa forza interiore, e sono riusciti a risollevarsi laddove altri, meno colpiti, sono rimasti sommersi. La terza cosa, infine, è affidarsi al pensiero e alla cura di chi ci ama: spesso ci giudichiamo più severamente di quanto meriteremmo, e allora lo specchio dello sguardo degli altri può aiutarci a recuperare almeno in parte la stima per noi stessi.
Sembra che noi cristiani abbiamo già “le parole pronte” per impedire di constatare il fallimento, e quindi di dirlo, e per poterlo vivere non come un dolore reale, un evento che ci può cogliere nella nostra lunga vita. Eppure ci dichiariamo discepoli di un maestro, un profeta che ha conosciuto come esito della vita il fallimento: il rifiuto della gente, l’abbandono e il tradimento dei suoi discepoli, una morte nella vergogna di chi è giudicato come uomo nocivo al bene dell’umanità, addirittura un indemoniato, un pazzo, un uomo falso. E’ sorprendente, di conseguenza, che noi cristiani parliamo facilmente e anche sorridendo di “scandalo della croce” (Gal 5,11), ma senza sentirci intrigati da esso, senza assolutamente pensare che questa potrebbe essere la sorte che ci attende.
Eppure il senso del fallimento non può essere rimosso, e quando si conoscono non superficialmente alcuni grandi testimoni cristiani si deve constatare che il fallimento è stato vissuto drammaticamente nelle loro vite. Perché? Perché in ogni persona è presente, fin nelle sue profondità, prima ancora del peccato, quella che nella tradizione cristiana è detta “infirmitas” o, con altri sinonimi, “fragilitas” e “miseria”. L’infirmitas, la debolezza, è la condizione della nostra carne, se siamo capaci di leggerla, e più «lo spirito è pronto», più «la carne è debole» (cf. Mt 26,41; cf. Mc 14,38). La debolezza, l’infirmitas, è in noi radicale: siamo fragili e deboli fino a trovarci nella miseria, siamo inadeguati ad assecondare lo Spirito, e per questa debolezza siamo costretti a cadere, a fallire.
Si può dunque fallire nella vita, anche nella vita che si è voluta cristiana, si può giungere al pensiero di una vita perduta, di una vita che non si è stati capaci di salvare. La vita passata appare come brandelli di carne lacerata non più componibili, non può disponibili per essere l’immagine di una vita. (…)
A nulla giova la mentalità mondana che pretende ci debba essere sempre e solo successo, riconoscimento, quasi «un’inarrestabile ascesa» (Sal 48,19)! Nella vita c’è anche il fallimento, la caduta, e chi arriva a dire che ha sbagliato tutto va ascoltato in silenzio e non va consolato con parole a buon mercato. Bernardo giungerà ad esclamare: «O beata, desiderabile debolezza (optanda infirmitas), colmata dalla potenza di Cristo, che mi permette non soltanto di essere debole, ma anche di fallire interamente a me stesso, per essere reso stabile dalla potenza del Signore delle potenze. “La sua potenza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza” (2Cor 12,9)».
Davvero, la forza di Dio trova la sua misura nella misura della nostra debolezza. Ma qui siamo già al di là del fallimento, come Paolo che arriva a dire: «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). «Naufragium feci, bene navigavi»: non lo si dice nella tempesta, ma quando la tempesta è finita e si è approdati al porto desiderato (cf. Sal 106,30) o, comunque, all’approdo che ci salverà.
Biografia
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.