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Pasqua, parola di speranza per tutti

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15/04/2009

Enzo Bianchi
La Stampa, 9 aprile 2004

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

I cattolici e i protestanti di tutto il mondo sono da pochi giorni entrati nel tempo di Pasqua, tempo “forte” per eccellenza, in cui meditare e riassimilare l’annuncio centrale della fede cristiana: la morte e resurrezione di Gesù, segno che il male e la violenza non hanno l’ultima parola, e che è invece l’amore vissuto nella libertà e nella responsabilità la sola forza capace di conferire senso pieno all’esistenza. Un messaggio che può aprire un cammino di speranza per tutti, laici e credenti, perché in grado di dare una risposta non effimera al nostro bisogno di trovare un orientamento saldo nelle vicende della vita.
Morte e resurrezione, però, non sono eventi di cui gli esseri umani abbiano la stessa esperienza: la morte è l’esito obbligato di ogni vita; la resurrezione viene colta e sperata nella fede. Ne scaturisce una tensione che, nella storia del cristianesimo, ha spesso generato deformazioni e malintesi, e in particolare la lettura doloristica della morte di Cristo, l’idea che siano state le sue sofferenze a salvarci, e che la sua fine ignominiosa sia stata “voluta” da Dio come sacrificio riparatorio per i peccati dell’umanità. E’ invece necessario affermare con forza, come sottolinea Enzo Bianchi in questo articolo, che ciò che ci salva – ossia ciò che ci offre una possibilità di senso e di compimento – non sono le torture a cui fu sottoposto Gesù, che furono e restano un abominio, ma il modo in cui lui le ha vissute senza venir meno alla sua missione, continuando ad amare Dio e gli uomini sino alla fine, pregando per i suoi aguzzini e affidandosi pienamente a quel Padre da cui si sentiva inviato.
Nell’infinita varietà delle nostre piccole storie, noi siamo invitati a imitare la scelta di Cristo, a donare la nostra vita per gli altri nella libertà e per amore: è questo il senso della Pasqua, un senso capace di illuminare l’esistenza di chi cerca il volto di Dio, e di conferire uno spessore nuovo, e la bellezza delle scelte radicali, all’etica laica della solidarietà.
Il fondamento della fede cristiana, celebrato e proclamato soprattutto nella Pasqua, è la passione-morte e risurrezione di Gesù. È un fondamento molto fragile, facilmente svuotabile e depauperabile, perché è costituito da un equilibrio delicatissimo tra due eventi, tra loro opposti e contraddittori: la passione-morte, che è evento umanissimo, esperito da ogni uomo al di là della diversa forma concreta che assume, e la risurrezione, evento che è azione di Dio esercitata nella storia solo sull’uomo Gesù di Nazaret.
Equilibrio delicatissimo che va custodito con molta vigilanza dai cristiani: per questo preoccupa la mancanza di sensus fidei, di “senso della fede” che emerge in questa stagione. Di fatto, in quest’ultimo decennio, sono molti quelli che si sentono “culturalmente” cristiani e che, di conseguenza, anche se non si interrogano sulla loro quotidiana sequela cristiana, anche se non hanno una prassi ecclesiale assidua, finiscono per essere abilitati lettori della vicenda di Gesù. Sì, c’è mancanza di senso della fede, per cui anche la Pasqua cristiana può essere stravolta senza che molti se ne diano pensiero.
Proviamo allora a mettere a fuoco la passione-morte di Gesù, iniziando dal rapporto tra i vangeli e la passione. Impressiona il fatto che nel primo vangelo, quello di Marco, scritto circa tre decenni dopo la morte di Gesù, il racconto della passione e morte sia lungo, sproporzionato rispetto a quello della vita: un quinto dell’intero vangelo. Segnale indubbio di quanto la vicenda della passione-morte stesse a cuore all’evangelista e di quanto fosse percepita come determinante per la fede cristiana. Sì, perché Gesù, il rabbi e il profeta che aveva radunato una comunità di discepoli e un gruppo di simpatizzanti, era morto condannato dal potere religioso legittimo e dal potere imperiale romano come uomo nocivo e avverso al bene comune. Bisognava allora mostrare che Gesù era “giusto”, che era passato facendo il bene, curando, guarendo, facendo arretrare il potere del demonio, e che nella sua vita spesa per amore di Dio e dei fratelli non aveva commesso nessun male. Bisognava dimostrare come si svolse il processo religioso e quello romano, come Gesù visse le sofferenze delle percosse, della persecuzione e della morte violenta: per questo il racconto della passione resta un racconto sobrio, in cui non c’è nessun compiacimento e nessun attardarsi sul dolore di Gesù. Così il racconto della passione nei vangeli sinottici è puntuale ma non descrive né le ferite della flagellazione, né cadute sotto il peso della croce, né i colpi di violenza inferti… Dice solo: “Gesù fu flagellato... fu deriso... fu caricato della croce... fu crocifisso...”. Racconti che non vogliono destare orrore, non vogliono che ci si attardi a contemplare le torture, non inducono alla tentazione di esaltare le sofferenze di Gesù. Ascoltando quei racconti, non si è mai portati all’esercizio di una contemplazione del sadismo dei persecutori e degli eccessi del dolore patito da Gesù. Tutto, invece, è narrato in modo che l’attenzione del lettore vada alla mitezza di Gesù, alla sua qualità di agnello afono di fronte ai suoi carnefici: Gesù, che per diritto avrebbe potuto, come i salmisti, chiedere a Dio la vendetta, maledire quei suoi nemici, ha invece chiesto perdono per i suoi persecutori, non ha minacciato rivalsa e ha scelto di essere vittima tra le vittime della storia. Non è venuto meno alla sua giustizia e ha continuato ad amare gli uomini fino alla fine, fino alla morte.
I vangeli vogliono far entrare il lettore nella preghiera, nel cammino di conversione: quello “spettacolo” della croce è per attirare tutti a Cristo, non per impressionarli e destare in loro un macabro voyeurismo. Gesù non ci ha salvati attraverso una quantità massima di sofferenze: altri nella storia dell’umanità hanno sofferto fisicamente più di lui, hanno patito carcere, torture, persecuzioni più lunghe e più strazianti delle sue. Gesù non ci ha salvato attraverso i colpi della flagellazione né è stato complice del piacere sadico dei suoi esecutori. La passione e la morte di Gesù ci sono narrate unitamente alla sua vita anzi, in funzione della sua vita, per affermare il termine “ad quem” cui è giunta questa vita spesa nel servizio e nell’amore per gli uomini.
In occidente, purtroppo, c’è sempre stata la tentazione di leggere Gesù solo nell’evento puntuale della sua morte, quasi che non abbia vissuto una vita umana fino alla maturità: ma se fosse venuto solo per morire per noi, allora gli sarebbe bastato morire nella strage dei bambini di Betlemme voluta da Erode! No, la vita di Gesù è stata, come dice Paolo, un “volerci insegnare a vivere in questo mondo”: questa è stata la narrazione di Dio e del suo amore fino alla croce. Fino “alla” croce, non “nella sola” croce! Ben ce lo ricorda il cardinal Ratzinger [al tempo di questo articolo, non ancora Papa, N.d.R.] quando afferma che va ricusata assolutamente l’idea di un Dio “la cui giustizia avrebbe reclamato un sacrificio umano, il sacrificio di suo Figlio: questa immagine è tanto comune quanto è falsa”.
La passione, poi, va letta alla luce della risurrezione. È questo il vero annuncio cristiano: la morte non è più l’ultima parola, l’odio è vinto dall’amore, il dolore è trasfigurato in gloria. La chiesa lo ha sempre capito: infatti, nella liturgia del venerdì santo essa legge la passione secondo Giovanni, racconto della gloria di Gesù che si manifesta proprio nella narrazione della passione, gloria di chi depone la vita per amore e nella libertà. La passione come la narra Giovanni è l’antidoto contro ogni strumentalizzazione pornografica della vicenda delle ultime ore di Gesù, l’antidoto contro ogni abuso osceno o sadico. È una passione in cui emerge la gloria, il peso di Dio nella vita di Gesù e il peso dell’amore di Gesù che tutto ha compiuto non per eseguire la volontà di un Padre che pretendeva la sua morte, ma per restare fedele a un Padre che chiede a ogni uomo amore, perdono, giustizia. È restando fedele alla volontà di Dio sulla forma della vita dell’uomo che Gesù ha incontrato una morte inflittagli dagli uomini ingiusti perché, in un mondo ingiusto, il giusto può solo essere condannato, rifiutato, ucciso.
I cristiani, allora, quando leggono o ascoltano la passione, contemplano sì un volto sfigurato, ma sapendolo ormai glorioso e trasfigurato: non si arrestano alla morte come se fosse una realtà definitiva. Per ben dodici secoli i cristiani di oriente e di occidente si sono rifiutati di rappresentare Gesù morto in croce: per i primi tre secoli, quelli precedenti la cristianità, non hanno mai raffigurato la croce, poi hanno dipinto un Cristo in croce ritto, con gli occhi aperti, glorioso, in posizione di Signore e di Risorto. Sapienza di una chiesa che, senza analgesie né dolorismi, manteneva intatto l’equilibrio morte-risurrezione e che sapeva che, se c’erano stigmate nel corpo di alcuni santi, queste non erano un invito al dolorismo ma tracce e segnali che nel vissuto di quei santi si poteva scorgere la conformità a Cristo, il Maestro e Signore.
Le nostre ossessioni contemporanee possono essere grandi tentazioni nel leggere la passione di Gesù: angoscia del male, fascino della violenza, ricerca dei colpevoli... In questo modo, come osserva acutamente il teologo Giuseppe Colombo, “la croce prevale sul crocifisso, dando libero sfogo alle tendenze ambigue insite nel subconscio dell’uomo: non è la croce a far grande Gesù Cristo, ma è Gesù Cristo che riscatta persino la croce, la quale è propriamente da comprendere, non retoricamente da esaltare”.
Oggi resta allora una preoccupazione: se si continua ad aver così poco “sensus fidei”, presto non riusciremo più a capire la differenza tra la liturgia cristiana e le rappresentazioni popolari della passione. Con ragione Sergio Luzzatto teme che la tentazione di rincorrere la pietà popolare – io la chiamerei “folklore paesano” – finisca per produrre un certo numero di mostri. La lettura autentica della passione di Cristo si fa contemplando i poveri, gli ultimi, i bisognosi della terra (“ogni volta che l’avete fatto a uno di questi ultimi, l’avete fatto a me”) e, possibilmente, vivendola come vita spesa per i fratelli. Sì, sono molte le ragioni per cui numerosi credenti oggi soffrono di questa poca chiarezza, e per cui altri rischiano di essere scandalizzati non dalla “parola della croce”, come la chiama l’apostolo Paolo, ma da una strumentalizzazione della croce indegna se fatta da parte di cristiani. Diffidiamo di chi pensa di poter evangelizzare in questo modo, diffidiamo di chi scambia per contemplazione profonda lo spettacolo osceno del dolore umano: come diceva Guigo il Certosino, “nuda e appesa alla croce va adorata la verità!”.

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele) e Ostuni (Brindisi).
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2008 è stato invitato, in qualità di “esperto”, alla XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.
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