Guida alla lettura
Un’esperienza traumatica che, secondo Ricca, «va presa sul serio», senza cercare di giustificare Dio ma anche senza ricorrere alle facili scorciatoie devozionali che un certo tipo di spiritualità propone riguardo al dolore e alla sofferenza. Gesù Cristo, esortandoci a chiedere a Dio qualsiasi cosa, ha forse esagerato? Avrebbe fatto meglio a promettere di meno? Certo, per un credente, quel silenzio resta un mistero: e a volte è davvero difficile continuare a credere che Dio sia anche un “padre” amorevole e sollecito. Ricca, con molta sapienza spirituale ma anche molta sobrietà, propone una serie di riflessioni: quattro sono, a nostro avviso, particolarmente significative e, sotto certi aspetti, potenzialmente eloquenti anche per chi abbia una visione laica dell’esistenza.
Primo: affidarsi a Dio non è mai sbagliato. Ma l’esperienza stessa di Gesù ci insegna che «una cosa è chiedere, un’altra è pretendere», aspettandosi un esaudimento automatico e quasi magico. Enzo Bianchi ci ricorda a questo proposito che ciò che veramente Dio non nega mai a chi glielo domanda con cuore sincero è lo “Spirito Santo” (cfr. Luca 11,13), ossia la forza di continuare ad amare e accettare di essere amati anche attraverso le prove più dolorose e drammatiche della vita.
Secondo: di fronte alla persona che soffre, tutti siamo chiamati ad aiutarla a portare almeno un poco del peso delle prove che sembrano aver spento in lei la «fiamma della fede». Guai a fare come i compagni di Giobbe, predicatori verbosi e insensibili, che non solo non seppero consolare l’amico, ma riuscirono sgraditi anche a Dio.
Terzo: come insegna la vicenda di Cristo, dopo una morte ci può essere una resurrezione. Vale per la vita umana, vale per l’amore, può valere anche per la fede.
Quarto: nell’attesa di una sempre possibile resurrezione, la persona può abbandonarsi all’incredulità, e questa è una sconfitta per lei e anche per Dio. Oppure può resistere e lottare contro il male, accettando la sfida lanciata da un canto indiano caro al Mahatma Gandhi: «E se anche non intravedi che campi aridi e sterili, / ara, o uomo, questi campi, non ti riposare. / Il mondo sarà avvolto nelle tenebre, / sarai tu a gettarvi luce. / Anche quando la vita ti abbandoni, / o uomo, non ti riposare. / Non darti mai al riposo, / dona riposo agli altri».
Lettera firmata
Il nostro lettore è deluso da Dio, si sente tradito da lui. Ci sono tanti delusi da Dio. In un certo senso lo siamo un po’ tutti. Segretamente, forse, ci aspettavamo qualcosa di più da lui, perché le sue promesse erano e sono da sempre molto grandi, quasi – si direbbe – più grandi di lui. Ma poi, sovente, la realtà contraddice le promesse. Doveva promettere meno? Forse sarebbe stato meglio. Poteva non sbilanciarsi così tanto da dire, ad esempio, «...affinché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, Egli ve lo dia» (Giovanni 15,16)? Forse sarebbe stato più prudente non dire «tutto». Forse sarebbe stato meglio promettere meno – al limite anche poco – però poi mantenere la promessa.
Meglio uno che promette poco, ma mantiene la promessa, piuttosto che uno che promette molto, senza poi mantenere ciò che promette. Un Dio che promette e non mantiene, delude. Il nostro lettore è deluso, come tanti. È deluso perché si era illuso: la delusione è figlia dell’illusione. Ti eri illuso che Dio avrebbe mantenuto le sue promesse, e ora sei deluso perché non le ha mantenute. E siccome non le ha mantenute, non ti fidi più di lui. Si può infatti credere in un Dio che non mantiene le promesse? Evidentemente no. Un Dio così non è degno di fede. Perciò il nostro lettore non crede più e non prega più. Per fare un dispetto a Dio? Per rendergli, come si dice, pan per focaccia? No, non per ripicca, ma per onestà verso se stesso e verso Dio, per non far finta di credere in un Dio nel quale non crede più. Quando viene meno la fede, si spegne necessariamente anche la preghiera. La partita è chiusa, il «rapporto di buon vicinato» con Dio è finito.
Che cosa dire al nostro lettore deluso da Dio? C’è una parola sensata che possa essere detta, oltre alle ovvie espressioni di simpatia e solidarietà? Oppure è meglio tacere, come fecero per sette giorni e sette notti gli amici di Giobbe, «perché vedevano che il suo dolore era molto grande» (Giobbe 2,13)? Ma anche gli amici di Giobbe, dopo un lungo silenzio, hanno parlato e detto molte cose, che però non sono state di alcun aiuto a Giobbe, e non sono piaciute neppure a Dio, che alla fine si adirò contro di loro perché – disse – «non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe» (42,7). Ecco, cercando di rispondere al nostro lettore, non vorrei fare la parte degli amici di Giobbe, anche se so che è proprio questo il rischio che corro.
1. La prima cosa da dire è che l’esperienza del nostro lettore va presa sul serio. Non è un gioco, non è una recita, è una drammatica realtà che può accadere a chiunque di noi, è un trauma profondo che scuote le fondamenta del nostro essere e fa vacillare le più intime certezze dell’anima. Leggiamo nell’evangelo che Gesù «andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando l’evangelo di Regno, sanando ogni malattia e ogni infermità tra il popolo» (Matteo 4,23). Noi crediamo nel Cristo risorto e vivente, che «è lo stesso ieri, oggi e in eterno» (Ebrei 13,8). Perché non dovrebbe guarire oggi come guariva allora? O Gesù non è più lo stesso? O è sbagliato chiedergli di guarire il corpo oltre che l’anima? Dovremmo chiedergli solo di prendersi cura dell’anima aumentando la nostra fede, e affidare il nostro corpo – come del resto già facciamo – alla medicina, che è anch’essa strumento di Dio per il nostro bene? Credo, per parte mia, che a Dio possiamo chiedere ogni cosa, ma questo non vuol dire che dobbiamo ottenere ogni cosa. Affidarsi a Dio non è mai sbagliato. Ma una cosa è chiedere, un’altra è pretendere. Gesù ha chiesto che bere il calice amaro gli fosse risparmiato, ma non lo ha preteso.
Capisco però che ci si possa stancare di chiedere. Lo stesso Mosè non ce la faceva più a tenere le mani alzate («si erano fatte stanche», Esodo 17,12), perciò Aronne e Hur le sostenevano perché restassero alzate «fino al tramonto del sole», e così Israele potesse vincere la battaglia contro gli Amalekiti. Ci si può stancare di tenere le mani alzate se nessuno ci aiuta; ci si può stancare di chiedere senza ottenere, di sperare senza vedere, di aspettare senza ricevere. Ci si può stancare di credere. Ci si può stancare di Dio. Si può abbandonare la partita, ritirarsi dalla lotta – la grande lotta cominciata da Abramo che partì senza sapere dove andava –, si può, come si dice, perdere la fede. È successo anche a Gesù, non di perdere la fede, ma di perdere discepoli: «Molti dei suoi discepoli si ritrassero indietro e non andavano più con lui» (Giovanni 6,66). C’è chi di fronte alle sofferenze del mondo e della vita, nella morsa della contraddizione tra ciò che crede e ciò che vede, non ce la fa più a continuare a credere, «sperando contro speranza» come Abramo (Romani 4,18) e, come un pugile sconfitto, getta la spugna. È una cosa tristissima, una sconfitta per l’uomo e per Dio, ma succede. Che dire? Non c’è nulla da dire, c’è solo da portare, con chi non ce la fa più, un po’ del peso delle prove che sembrano aver spento in lui, almeno per ora, la fiamma della fede.
2. La fede può morire, ma può anche risuscitare. Quando Gesù è morto, è morta, con lui, anche la fede dei discepoli. Il rito della sepoltura del corpo di Gesù esprime bene, simbolicamente, il funerale di una fede che era sempre stata esigua (più volte Gesù aveva chiamato i discepoli «gente di poca fede»: Matteo 6,30, ecc.), ma adesso anche quella poca era scomparsa. Il grande sogno era svanito, l’avventura di Gesù e con Gesù era miseramente fallita. Se c’è un «venerdì santo della ragione», c’è anche un «venerdì santo della fede». «Speravamo che fosse lui, Gesù, che avrebbe riscattato Israele» dicono i discepoli di Emmaus «e invece...» (Luca 24,21). Ma il terzo giorno, con la risurrezione di Gesù, è risuscitata anche la fede dei discepoli, anzi la loro fede, da piccola che era, è diventata grande, da morta che era, è diventata più viva di prima. Sì, la fede può risorgere, come già sapeva il profeta Ezechiele, il quale profetizzò a un popolo paragonato a una valle piena di ossa secche, e i morti tornarono in vita secondo la parola di Dio: «Ecco, io aprirò i vostri sepolcri, vi trarrò fuori dalle vostre tombe, o popolo mio...» (Ezechiele 37,12). Questo stesso pensiero è stato espresso molto bene da Calvino commentando il profeta Michea: «È così che la Chiesa è conservata in questo mondo: risuscitando ripetutamente dalla morte. Insomma: che la Chiesa sia mantenuta in vita comporta molti miracoli, quasi ogni giorno: questo dobbiamo tenere bene a mente, che la vita della Chiesa non procede senza risurrezione, anzi senza molte risurrezioni». Quello che Ezechiele e Calvino dicono della fede della Chiesa, vale ovviamente anche per la fede di ogni singola persona. Nell’evangelo, come nella vita, la morte c’è, ma non ha l’ultima parola. Lo ripeto: la fede può morire, ma può anche risorgere.
3. Gesù è morto il venerdì ed è risuscitato all’alba della domenica: in mezzo c’è il sabato. Con che cosa possiamo occupare questo «sabato santo della fede», tra la sua morte e la sua risurrezione? Propongo due piste: una sull’incredulità e una sulla resistenza.
[a] Sull’incredulità direi questo: per quanto giustificata essa ci possa apparire, è pur sempre una vittoria del Maligno (per utilizzare questa antica espressione biblica), che non si rallegra mai tanto come quando riesce a sradicare la fede dall’animo di una persona. L’opera del Maligno è questa: distruggere nell’uomo la fede, la speranza e l’amore; di solito comincia dalla fede. L’incredulità ha naturalmente il suo fascino: sembra una vittoria dell’intelligenza critica sulla fede equiparata a superstizione, o anche, come nel caso del nostro lettore, una legittima protesta contro un Dio deludente. Ma l’incredulità è piuttosto una sottile tentazione in agguato lungo il cammino della nostra vita, soprattutto nei suoi momenti critici. Non è un caso che l’ultima richiesta del Padre Nostro sia: «Liberaci dal Maligno», che significa anzitutto «Liberaci dalla tentazione di non credere più in te»; in altre parole: «Fa’ che non disperiamo mai di te».
[b] È possibile resistere nella prova e attraverso essa. E quello che “resistenza” può significare, è espresso molto bene in un canto indiano che Gandhi chiese gli venisse cantato l’ultima sera della sua vita (il giorno dopo venne assassinato):
Anche se stanco e spossato, o uomo, non ti riposare;
non abbandonare la tua lotta solitaria, continua, non ti riposare.
Batterai sentieri incerti e aggrovigliati,
non salverai forse che qualche povera vita,
ma non perdere la fede, o uomo, non ti riposare.
La tua stessa vita ti consumerà e ti sarà ferita;
crescenti ostacoli sorgeranno sul tuo cammino,
o uomo, caricati di questi pesi, non ti riposare.
Salta al di là delle pene e degli affanni,
pur se fossero alti come montagne.
E se anche non intravedi che campi aridi e sterili,
ara, o uomo, questi campi, non ti riposare.
Il mondo sarà avvolto nelle tenebre,
sarai tu a gettarvi luce.
Disperderai l’oscurità che lo circonda.
Anche quando la vita ti abbandoni,
o uomo, non ti riposare.
Non darti mai al riposo,
dona riposo agli altri.
Biografia
Consacrato pastore della Chiesa valdese nel 1962, esercita il ministero a Forano e a Torino, e segue il Concilio Vaticano II per conto dell’Alleanza Riformata Mondiale. Dal 1976 al 2002 insegna Storia della Chiesa e, per alcuni anni, Teologia Pratica presso la Facoltà Valdese di Teologia di Roma.
Membro per quindici anni della Commissione “Fede e Costituzione” del Consiglio Ecumenico delle Chiese (Ginevra), opera in diversi organismi ecumenici ed è per due mandati presidente della Società Biblica in Italia.
Attualmente è professore ospite presso il Pontifico Ateneo Sant’Anselmo di Roma e dirige la collana “Lutero. Opere scelte” dell’editrice Claudiana di Torino.