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L'azzurra malinconia delle cose perdute

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26/11/2014

Tratto da:
Angelo Maria Ripellino, Poesie 1952-1978, a cura di Alessandro Fo, Antonio Pane e Claudio Vela, Einaudi, Torino 1990, pag. 156, 212, 230

Guida alla lettura

In queste tre brevi liriche, Angelo Maria Ripellino canta il dolore di vivere. Splendide ed eloquenti le immagini: come non riconoscere come nostra quella «azzurra malinconia di tutte le cose perdute / domenicale malinconia della giovinezza fuggita»? Chi di noi non si è sentito, almeno una volta, un “attore senza voce” che «si ostina a non voler morire / e con desiderio aspetta l’alba / sterminata, gelida, ventosa, / perché è bella la vita, e misteriosa, / e così labile»? E chi non ha mai desiderato volare via da se stesso, «come un uccello migratore»? Per non parlare di quel cenno fuggevole a un’Europa in agonia: siamo nel ‘76 quando Ripellino scrive quei versi, e oggi, dopo trentotto anni, tutto sembra come allora, e ancora viviamo una lunga agonia delle idee e della cultura.
La poesia è capace di affermare verità universali in cui tutti ci possiamo riconoscere. Ma la poesia è anche resistenza al male e alla superficialità, alla violenza del tempo che trascorre, ai drammi che sfigurano il mondo. Nel 1977, a proposito della raccolta “Autunnale barocco”, Ripellino scriveva queste parole: «L’esercizio della poesia è una prova di resistenza alle asperità quotidiane e all’indifferenza degli uomini. Le squallide vicende dei giorni presenti paiono sottolineare l’inutilità della poesia, perché essa, sempre più scalzata sui margini, nulla può lenire e a troppi non dice nulla. La poesia è magnificamente superflua come il dolore e troppo fragile in tempi di sopraffazione. Ma come può svellersi da essa colui che ne è malato, che il ritmo stesso dei giorni scandisce con la misura dei versi? Ed ecco nascere una sgomenta raccolta da camera, un album di improvvisi, di fantasie, di sommesse inflessioni, di autunnali bisbigli… Queste liriche sono il protocollo di una malinconia troppo inerme: di una stanca mestizia con l’incombere della vecchiaia, per gli inganni di occulti machiavellisti che insidiano il gracile bozzolo dell’esistenza con perfidi zuccheri e agguati e rapine e travestimenti. Scrivere poesie nell’assedio in cui siamo invischiati vuol dire caparbietà di non soccombere agli sfaceli, di sopravvivere, tenendo a distanza con la magia del Belcanto, con la pienezza polposa delle parole, con gli esorcismi delle paronomasìe e delle assonanze la Morte (Angelo Maria Ripellino, Poesie 1952-1978, Einaudi, 1990, pag. 251-252).
Il fatto decisivo è che questa valenza salvifica della poesia (che potremmo estendere senza difficoltà a tutta la letteratura, e all’arte in genere: si pensi solo alla musica e alla pittura) si dispiega non solo nei confronti del poeta, ma anche verso tutti noi: tutti possiamo trovare in una lirica amata una difesa da questi «tempi di sopraffazione», la forza di «non soccombere agli sfaceli, di sopravvivere, tenendo a distanza la Morte». Tutt’altro che «magnificamente superflua», la cultura rappresenta allora un saldissimo baluardo contro lo squallore dell’oggi, un baluardo che tutti siamo chiamati a costruire.
Azzurra malinconia di tutte le cose perdute,
domenicale malinconia della giovinezza fuggita,
azzurra malinconia di un briciolo di salute,
azzurra malinconia di una gracile vita,
ràncida malinconia che non accetta ragioni:
malinconia, malumore, freddo, nuvole, inòpia.
Moriamo da guitti, da squarciacantoni,
mentre agonizza l’Europa.
(Lo splendido violino verde, n. 33)

Sai che significa essere bruciati
e senza un filo, un'ombra di sorriso?
Sai che significa implorare la gioia,
perché ritorni come un tempo sul tuo viso?
Un mare di fiori gettato su un guitto
non può colmare il suo vuoto orrendo.
Un attore senza voce è un lazzaro
e rotea come una girella nel vento.
Ma egli si ostina a non voler morire
e con desiderio aspetta l’alba
sterminata, gelida, ventosa,
perché è bella la vita, e misteriosa,
e così labile.
(Autunnale barocco, Parte prima, n. 25)

Volare via da me stesso
come un uccello migratore,
da questo roveto, da questo malessere,
da questo perenne dolore.
(Autunnale barocco, Parte seconda, n. 72)

Biografia

Angelo Maria Ripellino – poeta, saggista e traduttore – nasce a Palermo nel 1923. Durante i primi anni universitari, la sua preferenza va alle letterature ispaniche: Capdevila, Machado, Jiménez e Garcìa Lorca lasciano forti tracce nel suo immaginario. In seguito, si specializza in letteratura slava, laureandosi nel 1945 con una tesi sulla poesia russa del Novecento. In quegli stessi anni accusa i primi sintomi di una grave forma di tubercolosi.
Nel 1946 si reca a Praga per specializzarsi in lingua e letteratura ceca: nasce per la città un amore profondo che non lo abbandonerà mai. Dal 1948 al 1952 insegna Filologia Slava e Lingua Ceca a Bologna; dal 1961, sarà docente di Lingua e Letteratura Russa all’università “La Sapienza” di Roma. I suoi scritti sono apprezzati per il taglio innovativo, l’apertura verso ogni manifestazione dell’arte contemporanea e la ricerca delle analogie fra la letteratura e la pittura, la musica, il teatro.
Nel 1949 ritorna a Praga e percepisce, con sgomento, che «lo stalinismo già volpeggia negli arcani casamenti di Kafka».
Negli anni Cinquanta diventa consulente della casa editrice Einaudi per le letterature slave: curerà le edizioni di molti importanti scrittori, fra i quali Puskin e Dostoevskij. Nel 1960 pubblica il suo primo libro di poesie, “Non un giorno ma adesso”.
Nel 1964, un’improvvisa ricaduta della tubercolosi lo costringe a ricoverarsi per qualche tempo nel sanatorio di Dobris, presso Praga: un’esperienza che segnerà indelebilmente la sua poesia e il suo sguardo sulla vita. Tre anni dopo, nella primavera del 1967, partecipa ai lavori del IV Congresso degli Scrittori Sovietici e scrive articoli severi sul conformismo della cultura di regime.
Nel luglio del ‘68 è a Praga come inviato dell’“Espresso”, dove è testimone – con cronache memorabili – dei tragici eventi dell’invasione sovietica. In “Praga magica”, pubblicato nel 1973, scriverà dolcissime parole di rimpianto e speranza per la città tanto amata: «Non avrà fine la fascinazione, la vita di Praga. Svaniranno in un baratro i persecutori, i monatti. Ed io forse vi ritornerò. Certo che vi ritornerò... Vi porterò i miei nipoti, i miei figli, le donne che ho amato, i miei amici, i miei genitori risorti, tutti i miei morti».
Fra il 1976 e il 1977 escono le sue ultime raccolte poetiche, “Lo splendido violino verde” e “Autunnale barocco”. Nell’aprile del 1978, muore improvvisamente a Roma per un collasso cardiocircolatorio.
Il tema della malattia e della morte ritorna in molte sue liriche: il sanatorio viene rivissuto come un castello surreale, un luogo d’incubo in cui si muovono personaggi grotteschi e disperati. Il senso del dolore, poco per volta, si insinua profondamente nei suoi versi più belli, insieme con un’aspra nostalgia per chi non è più, e la paura dell’oblio.
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