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Una mortale pesantezza sul cuore

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20/02/2013

In: Camillo Sbarbaro, L’opera in versi e in prosa, Garzanti 1999

Guida alla lettura

In questa lirica intensa ed elegante, Camillo Sbarbaro esprime tre diverse prospettive di quel pessimismo che segnò profondamente il suo spirito: il non senso della propria esistenza personale («Dove vado mi domando, perché cammino»), l’effimero che accompagna lo svolgersi del tempo umano («Le generazioni passan come onde di fiume»), lo sgomento al pensiero della morte («Quant’albe nasceranno ancora al mondo dopo di noi!»). Uno sgomento che solo in apparenza contrasta con quella cupa visione della vita, e che in realtà la compendia, perché la fine del tempo lascia tanto più attoniti quanto più insensato e vuoto è il tempo stesso.
Il risultato di tutto ciò è una «mortale pesantezza», quella malattia dell’essere che gli antichi anacoreti chiamavano “acedia” e oggi definiamo depressione: un amaro intreccio di stanchezza, disperazione, rimpianto, rabbia contro se stessi e contro il mondo. Al punto che il poeta preferirebbe «inerte esser fatto come qualche antichissima rovina», e assistere così, impassibile e sereno, all’avvicendarsi degli eventi e delle stagioni.
Sul piano artistico, la replica più potente mai scritta a questo «infinito scoramento» giunge da un tempo remoto e da un’opera giustamente considerata momento fondativo della letteratura italiana: la Commedia di Dante Alighieri. Nel canto XXIV dell’Inferno, Dante – salita un’aspra roccia – siede esausto: ma la stanchezza fisica è immagine dello sfinimento morale di fronte al dolore dell’esilio. Virgilio, maestro premuroso, subito lo esorta in versi straordinari per bellezza e vigore etico: «Omai convien che tu così ti spoltre», / disse ‘l maestro; «ché, seggendo in piuma, /in fama non si vien, né sotto coltre; / sanza la qual chi sua vita consuma, / cotal vestigio in terra di sé lascia, / qual fummo in aere e in acqua la schiuma».
Chi si adagia, ci ammonisce Dante, non raggiunge alcuna fama, e allora davvero il ricordo della sua vita passa come fumo disperso nell’aria, o schiuma nell’acqua che scorre: ma quella fama è alla nostra portata, dipende da noi, dalle nostre scelte e dall’orientamento della nostra volontà. E se per Dante essa era rappresentata dalla gloria letteraria, e più ancora dalla missione redentiva delle coscienze e della convivenza civile, per noi – uomini e donne molto meno grandi di Dante, ma non meno animati di sentimenti e di speranze – “fama” è ogni buon ricordo che potremo lasciare di noi in famiglia, sul lavoro, fra gli amici, per avere ogni giorno tentato di svolgere con impegno e amore il nostro mestiere di vivere. Allora non sarà più vero, come lamenta Sbarbaro, che «di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore non rimarrà il più piccolo ricordo», e la grande domanda sulla direzione e il perché del nostro cammino potrà trovare finalmente una risposta.
A volte sulla sponda della via
preso da un infinito scoramento
mi seggo; e dove vado mi domando,
perché cammino. E penso la mia morte
e mi vedo già steso nella bara
troppo stretta fantoccio inanimato...
Quant’albe nasceranno ancora al mondo
dopo di noi!
Di ciò che abbiam sofferto
di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore
non rimarrà il più piccolo ricordo.
Le generazioni passan come
onde di fiume...
Una mortale pesantezza il cuore
m’opprime.
Inerte vorrei esser fatto
come qualche antichissima rovina
e guardare succedersi le ore,
e gli uomini mutare i passi, i cieli
all’alba colorirsi, scolorirsi
a sera...

Biografia

Camillo Sbarbaro nasce a Santa Margherita Ligure nel 1888. L’amatissimo padre Carlo è ingegnere e architetto, e a lui il poeta dedicherà due poesie nella raccolta “Pianissimo”. La madre Angiolina, ammalata di tubercolosi, muore nel 1893: Camillo e la sorellina Clelia verranno allevati dalla zia Maria, detta Benedetta, a cui saranno dedicate le liriche di “Rimanenze”.
Il giovane frequenta il liceo ma poi abbandona gli studi, e nel 1910 trova lavoro presso un’impresa siderurgica di Savona. Il suo esordio di poeta avviene nel 1911 con la raccolta “Resine”. Nello stesso anno si trasferisce a Genova, dove nel 1914 si rivela all’attenzione della critica con la silloge “Pianissimo”: descrizione impietosa e dolorosa di una malattia mortale dell’anima che nasce dalla fine di certezze antiche, dal senso di solitudine, da un rapporto con la natura che non offre spazi di conforto e di riposo.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, Sbarbaro si arruola come volontario nella Croce Rossa e nel 1917 viene richiamato alle armi. Sono di questo periodo le prose di “Trucioli”, che verranno pubblicate nel 1920: opera singolare e ricca di splendide annotazioni, racconti, considerazioni sulla vita e sugli uomini.
Negli anni successivi, si guadagna da vivere dando ripetizioni di greco e di latino, e si appassiona allo studio dei licheni. Nel 1927 assume l’incarico di insegnante di greco e latino presso un istituto di Genova, ma ben presto è costretto ad abbandonare la cattedra perché non accetta di aderire al Partito Nazionale Fascista. Nel 1928 esce il volume “Liquidazione”, che contiene alcune prose scritte negli anni del dopoguerra.
Fra il 1928 e il 1933 Sbarbaro compie numerosi viaggi all’estero, e nel ‘33 inizia a collaborare con la Gazzetta del Popolo di Torino. Quando nel 1941 Genova viene colpita dai bombardamenti navali, si trasferisce a Spotorno con la zia e la sorella e vi rimane fino al 1945, dando inizio a una feconda attività di traduzione di classici greci (Pitagora, Erodoto, Eschilo, Sofocle, Euripide) e francesi (Molière, Stendhal, Balzac, Maupassant, Flaubert, Zola).
Nel 1945 ritorna a Genova, ma nel 1951 si trasferisce definitivamente a Spotorno. E’ di questi anni l’intensa collaborazione a numerose riviste letterarie. Nel 1949 vince il premio letterario Saint-Vincent e, nel 1955, il premio Etna-Taormina. In quello stesso anno pubblica la raccolta “Rimanenze”, improntata a una desolante amarezza e a un pessimismo che riecheggia motivi di ispirazione leopardiana. Gli ultimi anni di attività sono dedicati alla prosa. Muore a Savona nel 1967.
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