EN
Ricerca libera
Cerca nelle pubblicazioni scientifiche
per professionisti
Vai alla ricerca scientifica
Cerca nelle pubblicazioni divulgative
per pazienti
Vai alla ricerca divulgativa

Un'offesa insanabile al bene e alla giustizia

  • Condividi su
  • Condividi su Facebook
  • Condividi su Whatsapp
  • Condividi su Twitter
  • Condividi su Linkedin
01/05/2013

Tratto da:
Primo Levi, La tregua, Einaudi, Torino 2005

Guida alla lettura

In questo profondo e dolente brano, Primo Levi descrive l’arrivo delle avanguardie sovietiche nel campo di concentramento di Auschwitz e la liberazione dei pochi prigionieri sopravvissuti.
Due le immagini che si impongono con forza straordinaria alla nostra memoria e alla nostra coscienza: l’imbarazzo e il ritegno che accomunano soldati e internati di fronte al desolato scenario di morte, espressione visibile di quella vergogna «che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui e introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono», senza che la sua volontà abbia saputo o potuto opporre resistenza. E il senso di un male insanabile che mai nulla, per quanto buono e puro, potrà cancellare, e che come un contagio «spezza il corpo e l’anima dei sommersi, risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia».
Nella tensione di una narrazione altissima non solo sul piano storico ma anche sotto il profilo stilistico, Levi pone una questione etica e filosofica cruciale, a lungo dibattuta dopo gli orrori del Ventesimo secolo: se esista, cioè, una possibilità di riscatto del dolore brutale e innocente. La risposta negativa di Levi traspare con chiarezza in ogni sua pagina, e nell’amara angoscia che segnò per sempre la sua vita: «I segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti».
E’ eloquente, a tale proposito, il termine con cui spesso – persino in un capitolo di “Se questo è un uomo” e nel titolo della sua opera forse più importante – Levi indica le vittime dell’universo concentrazionario: i “sommersi”. Parola insolita che, vale la pena ricordare, per primo usò Dante nel riferirsi ai dannati dell’inferno: «Di nova pena mi conven far versi / e dar matera al ventesimo canto / de la prima canzon, ch’è d’i sommersi» (Commedia, Inferno, Canto XX, 1-3). In questa terzina Dante, introducendo la bolgia degli indovini, sottolinea come la prima cantica (“canzon”) del poema sia appunto dedicata ai sommersi, ossia agli abitanti di quel mondo infero entrando nel quale aveva esclamato: «Quivi sospiri, pianti e alti guai / risonavan per l’aere sanza stelle, / per ch’io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche, e suon di man con elle / facevano un tumulto, il qual s’aggira / sempre in quell’aura sanza tempo tinta, /come la rena quando turbo spira» (Inferno III, 22-30).
Levi visse in quel mondo senza luce, e non a caso recuperò quella parola antica e terribile, contrapponendola ai “salvati” che però, a differenza di quelli danteschi, non avrebbero mai più conosciuto una giustizia capace di estinguere il male e il dolore. La domanda dei filosofi resta e ci interpella: esiste la possibilità di sanare una “fonte di male” così profonda nel cuore dell’uomo?
Nei primi giorni del gennaio 1945, sotto la spinta dell’Armata Rossa ormai vicina, i tedeschi avevano evacuato in tutta fretta il bacino minerario slesiano. Mentre altrove, in analoghe condizioni, non avevano esitato a distruggere col fuoco o con le armi i Lager insieme con i loro occupanti, nel distretto di Auschwitz agirono diversamente: ordini superiori (a quanto pare dettati personalmente da Hitler) imponevano di “recuperare”, a qualunque costo, ogni uomo abile al lavoro. Perciò tutti i prigionieri sani furono evacuati, in condizioni spaventose, su Buchenwald e su Mauthausen, mentre i malati furono abbandonati a loro stessi. Da vari indizi è lecito dedurre la originaria intenzione tedesca di non lasciare nei campi di concentramento nessun uomo vivo; ma un violento attacco aereo notturno, e la rapidità dell’avanzata russa, indussero i tedeschi a mutare pensiero, e a prendere la fuga lasciando incompiuto il loro dovere e la loro opera.
Nell’infermeria del Lager di Buna-Monowitz eravamo rimasti in ottocento. Di questi, circa cinquecento morirono delle loro malattie, di freddo e di fame prima che arrivassero i russi, ed altri duecento, malgrado i soccorsi, nei giorni immediatamente successivi.
La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sòmogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti.
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi.
A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo.
Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.
Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.
Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. E’ stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.
Queste cose, allora mal distinte, e avvertite dai più solo come una improvvisa ondata di fatica mortale, accompagnarono per noi la gioia della liberazione. Perciò pochi fra noi corsero incontro ai salvatori, pochi caddero in preghiera. Charles ed io sostammo in piedi presso la buca ricolma di membra livide, mentre altri abbattevano il reticolato; poi rientrammo con la barella vuota, a portare la notizia ai compagni.

Biografia

Primo Levi nasce a Torino in una famiglia ebraica il 31 luglio 1919. Le leggi razziali introdotte nel 1938 precludono lo studio universitario agli ebrei, ma concedono di terminare gli studi a quelli che lo hanno già intrapreso. Levi è in regola con gli esami e si laurea nel 1941, con pieni voti e lode.
Nel 1943 si inserisce in un nucleo partigiano operante in Val d’Aosta. Dopo poco, nel dicembre 1943, viene arrestato dalla milizia fascista e, il 22 febbraio 1944, deportato nel campo di concentramento e lavoro di Auschwitz- Monowitz, in Polonia. Levi rimarrà nel lager per undici mesi, fino alla liberazione da parte dell’Armata Rossa.
L’esperienza nel campo di concentramento emerge nei romanzi “Se questo è un uomo” (pubblicato una prima volta nel 1947 e, nuovamente, nel 1956), “La tregua” (1962) e “I sommersi e i salvati” (1986).
Muore l’11 aprile 1987, a Torino.
Parole chiave di questo articolo
Sullo stesso argomento per pazienti

Vuoi far parte della nostra community e non perderti gli aggiornamenti?

Iscriviti alla newsletter