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La bimba che sopravvisse alla camera a gas

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30/10/2013

Tratto da: Shlomo Venezia, Sonderkommando Auschwitz, Rizzoli, Milano, 2009

Guida alla lettura

In questo brano Shlomo Venezia, ebreo italiano deportato ad Auschwitz e inserito nei “sonderkommando”, racconta il ritrovamento di una bimba ancora viva all’interno della camera a gas, e la sua successiva esecuzione ad opera di una SS.
Che cos’erano i “sonderkommando”? Erano squadre di prigionieri, normalmente ma non esclusivamente ebrei, incaricati di gestire le fasi più concrete e brutali dello sterminio. Racconta Primo Levi in “I sommersi e i salvati” (Einaudi 1986): «A loro spettava mantenere l’ordine fra i nuovi arrivati che dovevano essere introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d’oro dalle mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri» (pag. 36).
I pochi sopravvissuti di questi kommando, come osserva lo stesso Levi, non hanno mai parlato volentieri della loro esperienza, perché il senso di colpa dovuto all’incarico svolto ha devastato le loro coscienze per tutta la vita. Uno dei pochi a uscire allo scoperto è stato proprio Shlomo Venezia, che trasse dalla pena interiore la forza di narrare l’orrore senza nome. Spiega ancora Levi: «Le squadre speciali erano costituite in massima parte da ebrei… dovevano essere gli ebrei a mettere nei forni gli ebrei, si doveva dimostrare che gli ebrei, sotto-razza, sotto-uomini, si piegano a ogni umiliazione, perfino a distruggere se stessi… Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti» (pag. 37-39).
Siamo sicuri che l’umanità sia ormai immunizzata nei confronti di un Male così abissale, senza fine? Gli eccidi che, da allora, hanno tante volte insanguinato il mondo sembrano provare il contrario: ma sono quasi sempre eventi lontani, che solo con grande difficoltà toccano il cuore. L’immagine di quella bimba aggrappata alla madre, e finita con uno sparo a bruciapelo, richiama invece immagini più recenti e vicine, come quelle dei tanti bambini morti sui barconi della morte, a un passo dalle nostre coste, dopo lunghi esodi da terre di fame e di violenza. Rispetto al buio profondo della Shoah, il mondo è davvero così cambiato? Certo, le situazioni sono diverse, così come le colpe e le responsabilità. Ma il fatto che ancora oggi, come ieri, un bambino, una bambina possano trovare la morte stretti al seno della madre – nella tempesta di uno sbarco clandestino, così come in una guerra tribale, una carestia, un attentato, o in un’epidemia – deve farci capire che l’orrore senza nome è sempre lì, a ricordarci l’infinito dolore che può trafiggere la vita dell’uomo. L’esigenza di compassione, condivisione e aiuto interpella allora ciascuno di noi.
Un giorno, mentre testimoniavo in una scuola, una ragazzina mi ha chiesto se qualcuno era mai uscito vivo dalla camera a gas. I suoi compagni l’hanno presa in gito, come se non avesse capito nulla. Coma sopravvivere in quelle condizioni al gas mortale inventato per uccidere? Impossibile. Per quanto la sua domanda potesse sembrare assurda, era pertinente, perché è accaduto.
Poche persone hanno visto e possono raccontare questo episodio… eppure è vero. Un giorno, mentre tutti avevano cominciato a lavorare normalmente all’arrivo di un convoglio, uno degli uomini incaricati di togliere i corpi dalla camera a gas sentì un rumore strano. Non era così raro sentire rumori insoliti; spesso l’organismo delle vittime continuava a liberare gas. Questa volta però sosteneva che il rumore fosse diverso. Ci fermammo per ascoltare, ma nessuno sentì niente e pensammo che avesse avuto un’allucinazione. Qualche minuto più tardi ripeté che questa volta era certo di aver udito un rantolo. Facendo attenzione, anche noi riuscimmo a percepire il rumore, una sorta di vagito. All’inizio i gemiti erano intervallati, poi aumentarono fino a divenire un pianto continuo che tutti identificammo con il pianto di un neonato. L’uomo che se ne era accorto per primo si mise alla ricerca del punto da dove proveniva il rumore e scavalcando i corpi trovò una bambina di due mesi ancora attaccata al seno della madre, che piangeva perché non sentiva più arrivare il latte. L’uomo prese il bebè e lo portò fuori dalla camera a gas. Sapevamo che era impossibile tenerlo con noi e soprattutto nasconderlo o farlo accettare ai tedeschi. Infatti, quando la guardia lo vide, non sembrò dispiaciuto di dover uccidere un neonato. Sparò un colpo e la bambina che era miracolosamente sopravvissuta al gas morì. Nessuno poteva sopravvivere. Tutti dovevamo morire, noi compresi: non si trattava che di questione di tempo.
Qualche anno fa ho chiesto al caporeparto del più grande ospedale pediatrico di Roma come si spiegava il fenomeno. Mi ha detto che non era impossibile che la bambina, che stava poppando, sia stata isolata dalla forza del succhio al seno della madre; ciò avrebbe limitato l’assorbimento del gas mortale.

Biografia

Shlomo Venezia, nato a Salonicco nel 1923 e morto a Roma nel 2012, è stato un importante testimone dei campi di sterminio nazisti. Deportato nel 1944 ad Auschwitz-Birkenau, fu obbligato a lavorare nei Sonderkommando, squadre speciali composte da prigionieri e destinate alle operazioni di smaltimento e cremazione dei corpi dei deportati uccisi con il gas. I componenti di queste squadre venivano periodicamente soppressi per mantenere il segreto circa lo svolgimento delle operazioni: la squadra successiva, come primo incarico, bruciava i cadaveri dei predecessori. Venezia fu uno dei pochi sopravvissuti: l’unico in Italia, una dozzina in tutto il mondo.
La spaventosa realtà vissuta nel lager lo portò a una profonda sofferenza interiore e a un silenzio durato più di quarant’anni, anche per il tremendo senso di colpa. Venezia trovò la forza di superare il riserbo nel corso degli anni Novanta, cominciando a raccontare quanto aveva sofferto e arrivando, nel 2007, alla pubblicazione di “Sonderkommando Auschwitz”, una delle testimonianze più sconvolgenti sulle atrocità compiute durante la Shoah.

Informazioni liberamente tratte da 
Wikipedia – L’enciclopedia libera
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