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Liliana Segre: la mia vita con il marchio di Auschwitz

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Liliana Segre: la mia vita con il marchio di Auschwitz
09/11/2022

Tratto da:
Liliana Segre, Perché non ho tolto il mio marchio
In: Oggi, 3 novembre 2022

Per gentile concessione dell'Autrice

Guida alla lettura

In questi anni abbiamo introdotto tanti autori decisivi per la nostra cultura. Mai, però, una figura come Liliana Segre, di cui è essenziale non solo l’opera, ma l’esistenza stessa: l’essere sopravvissuta all’abisso dello sterminio, l’essere viva qui, oggi, in mezzo a noi, con il suo sguardo cordiale ed esigente, capace di interrogare in profondità le nostre coscienze. La sua parola è presenza, e la sua presenza è parola efficace contro le forze del nulla. Ogni suo atto rende testimonianza del senso stesso dell’esistenza e del bene a cui, nonostante tutto, siamo chiamati a credere come concreta possibilità di ogni giorno.
In questo brano, Liliana narra con semplicità e sincerità il rapporto con il “marchio” sul braccio che l’ha accompagnata sin dal giorno dell’internamento ad Auschwitz: il numero seriale con cui l’identità dei prigionieri veniva cancellata. La giovane, dopo la liberazione, non volle eliminarlo: non per lei doveva essere, quel segno, motivo di vergogna, ma per coloro che lo avevano imposto. Una decisione coraggiosa e matura, segno certo che il lager non aveva ucciso in quella ragazza la forza dell’animo, la capacità di pensare e di pensarsi nel futuro che finalmente si riapriva dinanzi a lei. Ma ben presto quel segno divenne anche motivo di sofferenza nel rapporto con gli altri: i familiari, gli sconosciuti incontrati per strada, persino i figli amati.
Nelle diverse occasioni, l’impatto con il “marchio” generava reazioni diverse: di curiosità indiscreta, di superficiale indelicatezza, ma anche di dolore e comprensione. E’ soprattutto il punto di vista di Liliana, sempre presente a sé stessa, che chiarisce la portata dei sentimenti in questione: la difficoltà di raccontare, il mentire per difesa, il rendersi conto con sgomento di non saper consolare – lei vittima – il figlioletto schernito dai coetanei per quel segno sul braccio della mamma. Sarà lo sguardo del futuro sposo, Alfredo Belli Paci, anch’egli reduce dai campi di concentramento, a far sentire Liliana finalmente compresa, libera dall’interiore necessità di spiegare, forse anche dall’inumano senso di colpa che non di rado tormentava, estremo oltraggio, chi era sopravvissuto all’inferno: vide il suo tatuaggio e disse: «So cos’è». Fu come una carezza delicata su una cicatrice, come una promessa, a certificare un amore capace di accogliere il dolore.
Leggere Liliana Segre sollecita la coscienza, interroga l’intelligenza, acuisce lo sguardo sulla Storia e sulle piccole storie di tutti noi. Ma anche alimenta un affetto che si fa subito caldo e familiare, che fa dire: questa persona è dentro di me, e vorrei che il mio cuore e la mia mente fossero capaci di trattenerne per sempre le parole e il sorriso. Enzo Biagi, anni fa, scrisse un libro divenuto famoso, studiato anche nelle scuole di allora: “Testimone del tempo”. Liliana Segre è testimone di un tempo che non deve ritornare, e ci tende il testimone perché il tempo di domani si apra senza ombre ad accogliere il cammino di tutti.

La parola dell'Autrice

(…) Non ho mai voluto cancellare quel numero, 75190, che m’impressero sulla pelle a 13 anni cancellando il mio nome e la mia vita precedente. Non l’ho mai tolto perché non penso di essere io a dovermene vergognare, ma coloro che me lo imposero, e forse anche chi oggi nega o è indifferente a ciò che è stato o non lo rispetta.
Confesso che non è stato facile convivere con quel numero. Quando sono tornata a Milano dopo il lager ero poco più che una ragazzina. Mi capitava di salire sul tram, con le maniche corte, e di sentirmi chiedere da qualche sconosciuto che cosa fosse. Risultava strano, perché all’epoca quasi nessuno aveva un tatuaggio, non si usava. Era difficile raccontare, spiegare di che cosa si trattasse in una situazione del genere, così cominciai a inventare che era il numero del telefono di casa, che non lo ricordavo e me l’ero segnato… Mentivo per difendermi. Persino chi mi voleva bene e provava a starmi vicino non riusciva a capire e a comportarsi con delicatezza. Mio zio paterno Amedeo, scampato alla Shoah, aveva ripreso in mano la ditta di famiglia e io spesso lo andavo a trovare. Tuttavia non di rado, quando c’erano dei clienti, mi invitava a mostrare loro il mio numero, tra lo sbigottimento generale, mettendomi in grande imbarazzo e rinnovando ogni volta il mio dolore. Ricordo tra gli altri un signore che, di fronte a me, con scioccante superficialità, gli suggerì di comprarmi un braccialetto e coprire tutto.
Più avanti sarebbero arrivate le domande dei miei figli. Interrogativi candidi, naturali, di fronte ai quali però restavo spiazzata, non trovavo le parole. Una volta ero al parco con il mio primogenito Alberto, che avrà avuto sei anni. All’improvviso venne da me in lacrime perché un altro bambino gli aveva detto che io avevo “un marchio” e a lui era parsa una parola così brutta… Era piccolo, non poteva capire, e io non seppi consolarlo. Riuscii solo a dirgli che gli avrei spiegato tutto quando sarebbe diventato più grande. Nonostante questo, non volli mai togliere quel “marchio”. Altre sopravvissute reagirono diversamente e se lo fecero cancellare. Come la mia compagna Graziella. Anche se la sua non fu proprio una scelta, ma una specie di obbligo da parte del marito. Mi dispiacque per lei, non per la decisione in sé, ma per la modalità. Capii ancora una volta quanto fossi stata fortunata: mio marito mi aveva accolta interamente, con il mio numero e la mia storia. Anzi, quando mi conobbe per la prima volta sulla spiaggia di Pesaro, vide il mio tatuaggio e disse: «So cos’è». Era stato un internato militare in Germania, non c’era bisogno di spiegare altro.
Mi fa un certo effetto oggi vedere tanti giovani che ricoprono la loro pelle di tatuaggi, anche i miei nipoti ne hanno alcuni. Tuttavia capisco che questo gesto abbia un valore del tutto diverso. Innanzitutto è una scelta libera, e forse è un modo di esprimere sentimenti, passioni, ricordi. Un’identità. Il contrario di quanto accadde a noi, ai quali il numero fu imposto sulla carne per cancellarla. (…)

Biografia

Liliana Segre nasce a Milano nel 1930. Nel 1938, vittima delle leggi razziali fasciste, è costretta ad abbandonare la scuola elementare. Nel 1943 cerca di fuggire in Svizzera insieme al padre Alberto (la madre, Lucia Foligno, era morta poco dopo la sua nascita), ma viene respinta dalle guardie di frontiera. Il giorno dopo Liliana viene arrestata a Selvetta di Viggiù e da qui è trasferita nel carcere di Varese, poi in quello di Como e infine a Milano. Nel 1944 viene deportata nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau con il padre; i nonni paterni saranno internati alcuni mesi dopo. Le viene tatuato il numero di matricola 75190 ed è inviata al lavoro forzato in una fabbrica di munizioni. Il 27 gennaio 1945, che oggi celebriamo come “Giorno della Memoria”, l’Armata Rossa raggiunge il campo: ma pochi giorni prima Liliana era stata costretta dalle SS, insieme a migliaia di altri internati ancora in grado di reggersi in piedi, a incamminarsi verso la Germania in un cammino forzato noto come “Marcia della morte”. La giovane verrà liberata a Malchow, un sottocampo di Ravensbrück, solo quattro mesi dopo, il 30 aprile 1945, giorno del suicidio di Hitler: una dei 25 sopravvissuti dei 776 bambini italiani di età inferiore ai quattordici anni deportati in Polonia.
Nel 1990, dopo molti anni di silenzio, inizia un’intensa attività di divulgazione della sua esperienza di sopravvissuta, partecipando a convegni e soprattutto a molti incontri con gli studenti, convinta che l’indifferenza e l’oblio siano mali persino peggiori della violenza.
Nel 2008 riceve la laurea honoris causa in Giurisprudenza dall’Università di Trieste e, nel 2010, quella in Scienze pedagogiche dall’Università di Verona. Nel 2018 viene nominata senatrice a vita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale. E’ Cavaliere della Legion d’Onore e Presidente del Comitato per le “Pietre d’inciampo”, che raccoglie tutte le associazioni legate alla memoria della Resistenza, delle deportazioni e dell’antifascismo.
Intensa anche la sua attività di scrittrice. Nel 2021 pubblica “La sola colpa di essere nati” (Garzanti), in collaborazione con il magistrato Gherardo Colombo, e “Ho scelto la vita. La mia ultima testimonianza pubblica sulla Shoah” (Solferino), che raccoglie il suo ultimo discorso pubblico nella Cittadella della Pace di Rondine (Arezzo). Ma sono fondamentali anche “Fino a quando la mia stella brillerà”, in collaborazione con Daniela Palumbo (Piemme 2018), in cui Liliana rievoca l’astro che ogni sera, nel campo, cercava in cielo, a reciproca garanzia di sopravvivenza; e “La memoria rende liberi. La vita interrotta di una bambina nella Shoah”, in collaborazione con Enrico Mentana (Rizzoli, 2019). E’ infine del 2022 l’uscita di “Una vita vale tutto”, ancora con Gherardo Colombo (Garzanti).
E’ importante rilevare l’estrema densità semantica di questi titoli. Ognuno di essi fissa un aspetto essenziale dell’esperienza di Liliana e lo trasforma in un segno eloquente per chi si pone in ascolto: la colpa che, agli occhi degli aguzzini, rese milioni di persone meritevoli di morire per il solo fatto di esistere; la scelta di vivere nonostante tutto, neutralizzando le catene del rimpianto e del rancore; la speranza riflessa nella luce di una stella lontana e negli occhi di una fanciulla capace di cercarla ogni notte nella notte del lager; e ancora il valore della vita, che riecheggia il verso del Talmud che Itzhak Stern recita al termine di “Schindler’s List”: «Chiunque salva una vita, salva il mondo intero».
Dal 2021 al 2022 la senatrice Liliana Segre è stata Presidente della Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza di Palazzo Madama.
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