Federica muore a 12 anni il 7 marzo 2010.
Per Silvia, che l’ha accompagnata con infinito amore nei brevi anni della sua esistenza segnata da una malattia rara e inesorabilmente progressiva, inizia la sofferenza, l’abisso indicibile di un dolore contro natura, che nessuna parola e nessun pensiero può contenere o spiegare. Lo strazio per la perdita di un figlio, uscito dalle tue viscere, carne della tua carne, sangue del tuo sangue, vita della tua vita.
E’ un dolore intollerabile, a tratti, assoluto: la ferita si riapre ogni volta che compare il ricordo, nello stesso momento in cui si cerca l’unico possibile sollievo dall’abisso del vuoto proprio nella memoria della figlia amata.
«Certe vicende della nostra storia hanno bisogno di accettazione, di ricognizione, di riconoscimento», sostiene Dolores Munari Poda (1). E Hillman diceva: «Le parole sono come cuscini: quando sono disposte nel modo giusto alleviano il dolore» (2).
Ed è quello che ha fatto Silvia. Queste sono due pagine del suo diario, a distanza di tempo, che raccontano il processo di trasformazione del suo dolore. Entrambe sono rivolte a Federica. E’ uno stare con lei che non può morire, ma solo evolvere, trasformarsi:
«Pensa la relazione di ora.
Questa nuova faccia
dell’amore
la chiamiamo lutto» (3)
Maggio 2011
Mi sento tanta rabbia dentro, come se ci fosse un urlo soffocato dentro lo stomaco. Sono arrabbiata perché il mondo va avanti ed io mi sono fermata e vorrei solo tornare indietro; sono arrabbiata perché mi sento in colpa a pensare così, so che non va bene nei confronti di Alessia e Pietro che adoro e che per loro c’è un futuro su questa terra, i figli sono il domani dei genitori, ma loro non ti possono sostituire, e una parte del mio futuro si è concluso; sono arrabbiata perché con gli altri devo fingere di sorridere, perché le persone mi chiedono come sto ed ho capito che nessuno può capire come sto, quindi qualsiasi risposta è inutile e io dico sempre che sto bene, e tutte le volte che dico che sto bene l’urlo diventa sempre più forte.
Sono arrabbiata perché in qualche momento di obbligata spensieratezza a volte il pensiero si allontana un po’ e mi sembra di stare bene, poi il pensiero torna improvviso ed è peggio di prima: è come avere la sensazione di affogare, riaffiorare in superficie per un istante e poi tornare giù.
Ho fede, sono convinta nel profondo che tu stia bene, so che noi non siamo un corpo con un’anima, ma siamo un’anima con un corpo, che è provvisorio, che è come un vestito che smetteremo; so che tu ora sei a Casa e quando riesco a concentrarmi con questo pensiero un po’ di serenità arriva.
Sono arrabbiata perché queste convinzioni troppe volte non mi bastano, mi manchi da morire e basta; sono arrabbiata perché so di darti un dolore quando piango e quando soffro, ma non riesco a farne a meno. Sono arrabbiata, certe volte rispondo male agli altri, non mi piaccio. E’ come se non avessi imparato niente. Mi sembra che una parte di me sia lì con te, faccio fatica a stare qui, vorrei raggiungere l’altra parte di me che è con te per sentirmi di nuovo tutta intera… e non vorrei, perché qui c’è qualcuno che ha ancora bisogno di me. Ma è proprio faticoso, mi sembra tutto inutile.
E’ passato un anno, in un anno ho capito che il dolore non è sempre uguale, muta, ha le sue fasi, questo forse deve essere il momento della rabbia. Spero che arrivi il giorno in cui questo dolore sarà solo un compagno che ho imparato ad accettare e con cui devo convivere, che riuscirò a pensarti qui vicina a me, a staccarmi un po’ da terra e a sentirti. A volte accadono certe piccole combinazioni, incontri in certi momenti particolari, piccoli fatti al momento giusto che sono troppo “casuali”, e allora ti sento, ma intanto non mi basta, non mi basta, non mi basta. Spesso ti sogno e allora mi sembra incontrarti, ma al risveglio non ci sei. Spero di riuscire un giorno ad allontanarmi da questo bisogno ancora troppo forte che ho del tuo bellissimo “vestito”.
«Ti voglio mille cieli infiniti di bene!», come mi dicevi sempre tu, e allora io ti rispondevo: «Io duemila»… e tu: «Io tremila»…
Gennaio 2016
Ciao Federica, sono quasi passati sei anni. Ormai ne avresti 18. In questi anni i sentimenti sono stati tanti: disperazione, rabbia, sensi di colpa, angoscia, dolore, e anche gioia… per questo regalo che ho avuto di avere la fede. Ora penso di essere arrivata ad un punto abbastanza stabile: ho la sensazione di essere in una perenne ATTESA e mi accompagna, sempre e ovunque, una grande e infinita e placida NOSTALGIA. Sei con me ogni giorno, in ogni occasione, che sia lieta o che sia triste. Sei con noi in ogni evento o ritrovo familiare, in ogni tappa raggiunta da Alessia e Pietro, in ogni loro traguardo o vicenda che tu non hai fatto in tempo a vivere. Sei con noi e la famiglia Gastaldi ogni volta che ci ritroviamo: i “Gasta” e i “Pelly” , quando la tua presenza/assenza diventa quasi palpabile. Sei in ogni cosa che fanno i tuoi compagni del ’97. Io li osservo su facebook o tramite le loro mamme che mi sono amiche, o direttamente con loro, che mi vogliono bene e non ci dimenticano mai.
I primi anni in cui non ti trovavo più avevo bisogno di rivedere le foto, i filmini, gli scritti, di parlare di te con tutti e sempre, o quantomeno appena l’occasione me lo consentiva o l’interlocutore me lo permetteva. Avevo bisogno di ritornare nei luoghi visitati o vissuti insieme a te. Approfittavo di essere sola in casa per ritirare fuori tutto e accarezzare e guardare e pensare e piangere. Ti cercavo. Era un modo per ritornare un po’ indietro, “ieri” era solo lì vicino, dietro l’angolo. Ma ora questo “ieri” si allontana sempre di più, lo vedo soprattutto dai tuoi compagni, le situazioni sarebbero troppo diverse, tu non saresti più una bambina… Ed io sto andando avanti con gli altri, col mondo… per forza.
Il pensiero del passato che non torna proprio più, la consapevolezza che quel “ieri” si allontana inesorabilmente senza scampo, mi provoca un dolore infinito che forse è ancora più insopportabile di quello dei primi anni. Non riesco più a guardare indietro senza provare uno svuotamento e un’angoscia incredibile, fa molto male. Mi accorgo che, quando rimango sola in casa, non riesco più ad approfittare per andare a ripescare qualcosa di te, mi sembra di sprofondare in un baratro.
Ora vado di fantasia: immagino come saresti a 18 anni e cosa faresti e cosa diresti e cosa ti piacerebbe fare o indossare e ti colloco in tutte le situazioni presenti che vivo. Sei diventata la mia dolce compagna.
Forse è un bene, forse è naturale essere proiettati in avanti.
La mia vita la sto vivendo bene, credo. Sì, sto bene. Cerco le occasioni che mi fanno sentire bene, cerco di scegliere attività e impegni che mi piacciano, che mi soddisfino e che abbiano un senso per me e che penso meritino la tua approvazione, faccio di tutto per esser gioiosa, di godere del presente e dei doni che ho. Cerco di amare al meglio, non sempre forse ci riesco. Continuo sempre a sentirmi fortunata. So che questa positività ti fa piacere, so che quando rido e sono contenta lo sei anche tu… ti sento quasi ridere.
E la nostalgia… lei, non me la toglie niente e nessuno. Ho sempre saputo cos’è la nostalgia per una persona cara che ti ha lasciato: a sette anni con mio papà, poi con Enzo, poi con Francesco, poi con mamma. Ma la NOSTALGIA che ho per te è ancora un’altra cosa. E’ come se mi fosse stato amputato un braccio. Vivo comunque la mia vita con tutte le sue gioie, le cose belle che mi offre, con gli affetti che mi circondano, magari con l’ausilio di una protesi, ho ancora l’altro braccio, e imparo addirittura a fare cose inimmaginabili con un braccio solo o con i piedi, ma quell’arto lì comunque non c’è più ed io sento sempre questa “presenza dell’assenza”, dal mattino quando apro gli occhi alla sera quando vado a dormire.
Quest’ultima considerazione però, mentre la scrivevo, mi ha fatto riflettere.
La posso capovolgere: è come se mi fosse stato amputato un braccio. Sento sempre questa “presenza dell’assenza”, dal mattino quando apro gli occhi alla sera quando vado a dormire, ma posso vivere ancora la mia vita con tutte le sue gioie, le cose belle che mi offre, con i doni che posso cogliere, con gli affetti che mi circondano e magari, con l’ausilio di una protesi, con l’altro braccio, con i piedi… imparo addirittura a fare cose inimmaginabili!
Quest’ATTESA la voglio riempire bene.
Ciao Fedy… come vedi il nostro bicchiere è sempre mezzo pieno! Ti voglio tanto bene, aspettami!
Mamma
Il percorso del lutto, mai del tutto compiuto, consente di riannodare con fatica i fili che si erano spezzati e costruire un nuovo ponte fra la vita e la morte, fra il passato e il presente, fra il presente e il futuro.
Il dolore non scompare ma, come il ricordo della figlia amatissima, si trasforma e apre ad altre dimensioni...
«Ricordiamo: volti, storie, emozioni, destini… Allora, mentre l’aria diventa satura di presenze, intuiamo l’intimità dei nessi tra passato e futuro, tra attesa e compimento, tra memoria e destino» (4).
Allora succede che, in qualche momento brevissimo, come l’accendersi di una lucciola, lo spazio e il tempo sembrano dilatarsi (o condensarsi?) e lasciare intravedere, al di là, una dimensione che è contemporaneamente “già e non ancora”.
«Ripensiamo al passato e abbiamo l’impressione che tu sia qui con noi. E’ una sciocchezza perché tu sei al di là del tempo, dove prima e dopo non possono esistere. Eppure sei con noi. Potrebbe essere che in qualche imprevedibile modo siamo noi a raggiungerti (per un istante!) da qualche parte al di là dal tempo?» (5).
Riferimenti bibliografici
(2) S. Ronchey, Intervista a James Hillman, Tuttolibri-La Stampa , 29 ottobre 2011
(3) C. L. Candiani, in Giornalino della Fraternità di Romena, anno XIX, n. 3/2015
(4) L. Colli, La morte e gli addii, Moretti e Vitali, 1999
(5) J. Berger, Rondò per Beverly, Nottetempo, 2014