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Ultimo brindisi

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31/05/2017

Tratto da:
Anna Achmatova, La corsa del tempo. Liriche e poemi, a cura di Michele Colucci, Einaudi 1992

Guida alla lettura

«In certi periodi della storia c’è solo la poesia che sia capace di guardare la realtà condensandola in qualcosa di afferrabile, qualcosa che in nessun altro modo la mente riuscirebbe a trattenere»: così scrive Iosif Brodskij in “Il canto del pendolo” (Adelphi, 1987) e così ricordavamo sei anni fa, in questa rubrica, commentando il brano in cui Anna Achmatova rievoca il momento in cui qualcuno la riconobbe davanti alle carceri di Leningrado, in coda per portare cibo e vestiti al figlio recluso, e una donna le chiese se lei, poetessa, potesse descrivere quell’orrore, la sofferenza indicibile di quella moltitudine disperata.
La lirica che proponiamo oggi riceve quel testimone e scava in profondità nel dolore dell’uomo: la perdita dei beni, una vita colpita dalla sventura, la solitudine e il tradimento, lo sguardo morto di chi pure abbiamo incontrato e amato, un mondo «crudele e rozzo» (quanta verità in questa coppia di aggettivi spietati), un Dio silenzioso che sembra non curarsi delle sue creature.
Con sgomento ci rendiamo conto che il mondo crudele e rozzo di Anna Achmatova è ancora il nostro mondo, che quel Dio distratto e inadempiente è ancora il nostro Dio. Sì, proprio i due ultimi versi rappresentano il vertice emotivo della lirica, un atto d’accusa senza appello mosso da un’anima ferita nelle sue speranze più profonde: e rendono piena ragione alle parole di Brodskij a proposito della poesia come unica possibilità di parola nel momento in cui l’idea stessa di Dio sembra morire, e il mondo pare inabissarsi nel vortice del male e del non senso.
Il canto termina senza che una luce venga a spezzare la morsa del buio. La sola possibilità di riscatto riposa allora nella memoria di quel dolore e dell’arte che lo esprime, nel coltivare queste parole immortali senza arrenderci alla crudeltà del mondo, perché attraverso il dire possiamo recuperare un frammento dell’essere che ci è stato tolto, che ci viene tolto ogni volta che la morte e l’empietà hanno ragione della vita e della pace.
Bevo a una casa distrutta,
alla mia vita sciagurata,
a solitudini vissute in due
e bevo anche a te:
all’inganno di labbra che tradirono,
al morto gelo dei tuoi occhi,
ad un mondo crudele e rozzo,
ad un Dio che non ci ha salvato.

Biografia

Si è sentita bruciare addosso il dolore sin da ragazza, un malessere velenoso: i genitori che si vergognano di te. Perché Anna Achmatova – poetessa, traduttrice, la prima donna a diventare un classico della letteratura russa – è lo pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko, vero cognome del padre, ingegnere navale, esponente della piccola nobiltà di Odessa, che sul nome di famiglia pose il veto alla figlia: «Quando venne a sapere delle mie poesie, mi disse: “Non infangare il mio nome”. Gli risposi: “Non so che farmene del tuo nome”». E allora la giovane poetessa rispolvera la radice tartara di un’antenata che aveva sposato un discendente di Gengis Khan, Akhmat, che nella femminilizzazione russa del cognome diventa “Achmatova”.
Nata a Bol’šoj Fontan, sul Mar Nero, l’11 giugno 1889, terzogenita di cinque figli, ad appena cinque anni si trasferisce con la famiglia a Càrskoe Selò, residenza estiva degli Zar, non distante da San Pietroburgo, e s’iscrive allo stesso liceo che fu del poeta e drammaturgo Aleksandr Puškin. Maria Grazia Calandrone, studiosa di letteratura, la descrive così: «Alta, magra, con lunghe gambe, lunghe braccia sottili, un viso illuminato da occhi sensibili e acuti, un naso aquilino che affascinò i suoi ritrattisti, uno su tutti il pittore e scultore italiano Amedeo Modigliani. Era l’immagine della femminilità, affascinante, dominante, misteriosa...».
Ad appena vent’anni sposa un altro poeta, Nikolaj Gumilëv. Non ha pace: i genitori disertano il matrimonio, non accettano le nozze con un intellettuale borghese. I due partono per un viaggio in Europa, lunga tappa a Parigi, la città di Baudelaire, Verlaine, Mallarmé. Qui la Achmatova incontra per la prima volta proprio Modigliani, di cui diventerà modella per alcuni ritratti. Il matrimonio con Gumilëv dura appena otto anni: nel 1918, qualche mese dopo l’inizio della rivoluzione russa che avrebbe portato alla nascita dell’Unione Sovietica, i due si separano e tre anni dopo, nel 1921, l’ex marito muore nel pieno della guerra civile con i bolscevichi: accusato di attività controrivoluzionaria, è passato per le armi.
La Achmatova compone la prima opera, “La sera”, nel 1912, a 23 anni: un’edizione limitata di 300 copie, subito esaurita. Segue “Il Rosario”, nel 1914. La poetessa è popolare sin dall’esordio, applaudita anche anche per le letture pubbliche dei suoi versi. Migliaia di donne russe iniziano a comporre liriche imitando il suo stile: breve, asciutto, sobrio. Ma dopo la fucilazione del marito, la sua ispirazione segna una lunga battuta d’arresto, dovuta anche alla censura dei Soviet. Il regime comunista non le fa più pubblicare nulla. Viene privata della tessera alimentare, vive del cibo che le passano gli amici. Rompe il silenzio soltanto nel 1934, con una delle sue liriche più famose, “Ultimo brindisi”, quella che abbiamo scelto per voi. E’ l’epoca nella quale si fa strada il dolore generato dalla disperata ricerca della bontà negli uomini, valore in cui aveva sempre creduto: della madre, Inna Erazmovna Stogova, appartenente alla nobiltà russa come il padre, diceva che «era sensibile, dagli occhi chiari, dotata di una bontà che, a quanto pare, io ho ereditato da lei, vano dono alla mia vita crudele».
Anna Achmatova attraversa il cuore del Novecento sovietico principalmente con Lev, l’unico figlio, nato nel 1912, imprigionato diverse volte nel periodo delle purghe staliniane, sino alla condanna, nel 1949, a 15 anni di lavori forzati, e liberato soltanto nel 1956. Unica colpa: essere figlio di suo padre. Tormenta la mamma con l’accusa di disinteressarsi al suo destino, di pensare solo alla poesia. Mentre la Achmatova, per salvargli la vita, arriva a scrivere versi di ossequio al regime comunista, e a fare lunghe code davanti al carcere per lasciargli pacchi di viveri e vestiti. Racconta: «Ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado». Una delle sue raccolte più celebri è “Requiem”, diario poetico sull’arresto di Lev, in cui confida di aver aspettato, al culmine del terrore staliniano, come molte altre madri, la condanna a morte o la deportazione del figlio. Le poesie di Requiem descrivono questo supplizio.
Espulsa dall’Unione degli Scrittori Sovietici nel 1946 con l’accusa di estetismo e disimpegno politico, Anna Achmatova viene tuttavia riabilitata nel 1955, anche se l’esilio intellettuale dura sino agli anni Sessanta. Le poesie di Requiem, non pubblicate, hanno comunque successo perché vengono imparate a memoria, e diffuse, dalle amiche. La poetessa si mantiene traducendo Victor Hugo, Tagore, Leopardi, Dante. Nel 1956 le assegnano una dacia a Komarovo, una colonia per scrittori, in campagna. Nel 1964, anche se malata, ottiene l’autorizzazione a espatriare per ricevere il Premio “Poesia Etna-Taormina” e la laurea honoris causa all’Università di Oxford.
Nel 1965 esce “La corsa del tempo”, antologia delle sue liriche. All’inizio del 1966, dopo un violento attacco di cuore, viene ricoverata. Muore a Domodedovo, sobborgo di Mosca, il 5 marzo. Dopo le purghe, una riabilitazione tardiva: ben due funerali, uno nella capitale, l’altro a Leningrado, che dopo la fine dell’Unione Sovietica tornerà a chiamarsi San Pietroburgo.
(A cura di Pino Pignatta)
Anna Achmatova
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