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Davanti alle carceri di Leningrado

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30/11/2011

Tratto da:
Anna Achmatova, La corsa del tempo, Liriche e poemi, a cura di Michele Colucci, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1992, p. 139

Selezione del brano, guida alla lettura e biografia a cura di Emanuela Aliquò

Guida alla lettura

«Nei tempi bui / si canterà? / Si canterà. / Dei tempi bui». E’ questo l’incipit di una poesia di Bertolt Brecht, intitolata “Canto tedesco” (Poesie di Svendborg, traduzione di F. Fortini, Einaudi, Torino, 1976, p 25).
Ed è dei tempi bui che si canta nel poema “Requiem” (da cui è tratto il brano che proponiamo), un ciclo di poesie composto sostanzialmente fra il 1939 e il 1940, e definito «un canto dolente per tutti i dolenti»: per le «madri che perdono i figli», per le «mogli che diventano vedove», per le «donne che a volte subiscono entrambe le perdite» (Iosif Brodskij, La musa in lutto, in “Il canto del pendolo”, Adelphi Edizioni, Traduzione di G. Forti, Milano, 1987, p. 39).
La pagina proposta è intitolata “In luogo di prefazione”: con pochi e intensi tratti, dagli echi davvero infiniti, Anna Achmatova ci racconta una scena molto bella e, insieme, ci introduce e ci illumina sul cuore pulsante del poema, ritenuto «forse il più grande atto d’accusa che un popolo, parlando il linguaggio della poesia, abbia scritto contro la tirannia» (Anna Achmatova, Io sono la vostra voce, a cura di Evelina Pascucci, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1990, p. XV).
Sono gli anni terribili della repressione staliniana; in particolare, è il periodo in cui ad infierire è Nikolaj Ivanovič Ežov, commissario del popolo agli Interni. Lev, il figlio della poetessa russa, arrestato il 10 marzo 1938, viene rinchiuso ai Kresty (Le croci): ogni mattina, per diciassette mesi (“nel freddo crudele, nell’afa di luglio”), col terrore di apprendere la notizia della condanna a morte di suo figlio, l’Achmatova corre alle carceri di Leningrado e, confusa tra i parenti – soprattutto donne – degli altri detenuti, affronta file lunghissime ed estenuanti per consegnare alla guardia un pacco contenente cibo o abiti. Se il pacco non veniva accettato, voleva dire che il detenuto era stato fucilato o era morto, e questo era noto a tutti.
«Ci si levava come a una messa mattutina, si andava per un’inselvatichita capitale, lì ci si incontrava più inanimate dei morti…» (La corsa del tempo, op. cit., p. 141).
Un giorno, mentre l’Achmatova attende il suo turno, qualcuno la riconosce; nella fila si diffonde la voce della presenza della grande poetessa russa ed è allora che nella «donna dalle labbra livide» che stava proprio dietro di lei, compagna di sventura e di infelicità, si accende un chiarore, si fa strada una speranza: potrà l’artista, la donna colta e famosa, descrivere quell’abisso di male e di dolore?
Nel bel saggio dedicato alla poetessa russa, Brodskij scrive ancora: «In certi periodi della storia c’è solo la poesia che sia capace di guardare la realtà condensandola in qualcosa di afferrabile, qualcosa che in nessun altro modo la mente riuscirebbe a trattenere…» (op. cit., p. 39).
E nel dire il suo sì, Anna Achmatova diventa testimone di una tragedia nazionale: per rendere indelebile, al tempo e a eventuali tentativi di negazione, ciò che nella memoria deve rimanere vivo; per nutrire l’identità, la coscienza e le aspirazioni del suo popolo, e dell’intera umanità; per temprare il cuore e “risensibilizzare il pensare”; per scavare nelle profondità dell’intimo umano; “per apportare ai mortali la traccia degli Dei fuggiti nelle tenebre della notte del mondo” (Martin Heidegger, Sentieri interrotti, presentazione e traduzione di M. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze, 1968, p. 296).
Non possiamo, infine, non accennare al potere della parola che mostra, fa vedere, fa “splendere e fiorire” ciò che già è, e che senza il Dire resterebbe nascosto, perché tra essere e apparire il rapporto è strettissimo.
In merito a quest’ultimo aspetto, ancora una volta, il pensiero corre veloce al filosofo tedesco per il quale l’Essere parla all’uomo che sa raccogliersi e ascoltare, attraverso il linguaggio, nei suoi orizzonti storici e culturali, e soprattutto attraverso la sua forma più autentica e profonda che è la poesia, intimo colloquio di canto e pensiero: «Il linguaggio è la casa dell’Essere. Nella dimora data dal linguaggio abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora» (Martin Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in La dottrina di Platone sulla verità, a cura di A. Bixio e G. Vattimo, Società Editrice Internazionale, 1978, Torino, p.75).
Per tutto questo, e per altro ancora, pensiamo che il tesoro di questa bellissima pagina risieda soprattutto nella sapienza di quel disarmante sorriso (in quel volto sfigurato dal dolore e senza protezione) le cui ragioni, ancora oggi, continuano a sorprenderci e a interpellarci.
Negli anni terribili della ežóvščina ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado. Una volta qualcuno mi “riconobbe”. Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che, sicuramente, non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di noi tutti e mi domandò in un orecchio (lì tutti parlavano sussurrando):
- Ma questo lei può descriverlo?
E io dissi:
- Posso.
Allora una sorta di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto.

Leningrado, 1° aprile 1957

Biografia

Anna Achmatova, pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko, nasce il 23 giugno 1889 presso Odessa, sulle rive del Mar Nero, da Inna Erazmovna e da Andrej Gorenko, ingegnere navale.
Pochi mesi dopo la nascita, la famiglia si trasferisce nei dintorni di Pietroburgo: prima a Pavlovsk, e poi nella cittadina di Carskoe Selo, residenza estiva della famiglia imperiale, il cui paesaggio locale, con la sua “magnificenza verde”, influenzerà la fantasia e la sensibilità della poetessa.
Nel 1905 i genitori si separano; Anna si trasferirà a Kiev dove conseguirà la licenza liceale e si iscriverà ai corsi universitari di diritto. Nel 1910, sposa Nikolaj Stepanovič Gumilëv; la coppia partecipa alla vita letteraria di Pietroburgo e si lega a un gruppo di giovani poeti, la “Corporazione dei poeti”, da cui scaturirà l’acmeismo russo, un movimento letterario con intenti di reazione al simbolismo e alla sua concezione della poesia come attività mistica.
Il 1° ottobre 1912 nasce Lev Nickolaevič, suo unico figlio; nello stesso anno viene pubblicata la prima raccolta di versi, “Večer” (La sera); seguiranno, nel 1914, “Četki” (Rosario) e, nel 1917, “Belaja Staja” (Stormo bianco). Con queste prime sillogi, Anna Achmatova conquista subito molti lettori e un grande successo di critica: fra il pubblico diventa familiare «la sua figura fragile e flessuosa, il suo scialle nero, il suo volto dalla frangetta liscia» (Poesia Russa del ‘900, a cura di A. M. Ripellino, Feltrinelli, Milano, 1954, p. 36).
Nel 1917, il rapporto con Gumilëv è definitivamente compromesso e la poetessa lascia per sempre la casa di Carskoe Selo; seguiranno il matrimonio con il poeta e assiriologo Vladimir Šilejko e, successivamente, fino al 1938, il legame affettivo, il più lungo e intenso della sua vita, con lo storico e critico d’arte Nikolaj Punin.
Nel 1921, viene pubblicata la raccolta di poesie “Podorožnik” (Piantaggine); è anche l’anno in cui viene fucilato Gumilëv, con l’accusa di attività controrivoluzionaria. Nel 1922, esce la sua nuova raccolta, “Anno Domini MCMXXI”, in cui compaiono spunti di poesia civile e religiosa. Poi, a partire dal 1925 e per oltre un quindicennio, cessa la pubblicazione di nuovi versi e la ristampa dei vecchi: è il tristissimo tempo del silenzio coatto e dell’ostracismo. Solo nel 1940, dopo anni di oblio, pubblicherà la raccolta “Iva” (Il salice), piena di malinconici ricordi, e col titolo “Iz šesti knig” (Da sei libri) una scelta di poesie dei volumi precedenti.
Gli anni della repressione staliniana sono atroci: nel 1935, il figlio della Achmatova è preso e rilasciato (per mancanza di prove); nel 1938, viene nuovamente imprigionato e condannato a morte, pena poi commutata nella deportazione. Il frutto di questa orrenda esperienza sarà il poemetto “Rekviem” (Requiem), per anni ritenuto a mente dalla poetessa (che sapeva quanto sarebbe stato pericoloso metterlo su carta) e dalle sue migliori amiche. Nel 1940 ha inizio la composizione del “Poema bez geroja” (Poema senza eroe), opera a cui la poetessa lavorerà per ventidue anni.
Il 22 giugno 1941, la Russia, invasa dai nazisti, entra nel conflitto mondiale; Lev Gumilëv, ancora in carcere, si offre volontario ed è inviato al fronte. Tutti gli scrittori sono fatti evacuare a Mosca, e da lì a Taškent, dove l’Achmatova vive fino al 1944. Quanto a quegli anni, apprendiamo dai suoi scritti che «capta avidamente le notizie su Leningrado, sul fronte… recita versi negli ospedali, ai soldati feriti e, nell’ardente calura, per la prima volta, ha l’idea di che cosa sia l’ombra degli alberi e il rumore dell’acqua» (Anna Achmatova, Io sono la vostra voce, op. cit., p. 8). Tornata a Leningrado, viene raggiunta dal figlio Lev, liberato nel 1942.
Nel 1946, la poetessa è espulsa dall’Unione degli scrittori con l’accusa di estetismo e disimpegno politico; nel 1949, viene nuovamente arrestato il figlio. Consigliata da amici, la poetessa russa accetta di scrivere versi di ossequio al regime: per questo difficilissimo e sofferto gesto, Lev sarà salvo, anche se la liberazione avverrà solo nel 1956, tre anni dopo la morte di Stalin.
Negli ultimi anni della sua vita, durante il disgelo ai tempi di Chruščëv, la Achmatova è ufficialmente riabilitata e conosce di nuovo fama e successo. Nel 1962, mette per iscritto il testo di “Rekviem”. La composizione è pubblicata per la prima volta nel 1967, a Monaco di Baviera, dall’Associazione degli scrittori russi in esilio, e a Mosca in edizione completa solo nel 1987.
Nel dicembre 1964, su interessamento della Comunità europea degli scrittori, la Achmatova – che per la prima volta, dopo la Rivoluzione, ha il permesso di recarsi all’estero – si reca in Italia per ricevere il premio internazionale Etna-Taormina e, nel giugno del 1965, in Inghilterra, per ricevere la laurea “honoris causa” dell’Università di Oxford. Nel 1965, esce a Leningrado una raccolta di versi con il titolo “Beg vremeni” (La corsa del tempo) e l’anno successivo, per la casa editrice Einaudi, “Poema senza eroe”, nelle sue tre parti.
Muore a Domodedovo, presso Mosca, il 5 marzo 1966; i funerali di Stato avverranno il 10 marzo a Leningrado, nella cattedrale di San Nicola, un edificio barocco bianco e blu, e la sua bara sarà seguita da un enorme corteo. La sua figura è onorata a Pietroburgo con un museo allestito nel palazzo Šeremetev sulla Fontanka.
Anna Achmatova, una delle più struggenti e suggestive voci della lirica europea del Novecento, ha dato voce al dolore e all’eroismo del popolo russo e ha saputo sopravvivere con coraggio ai drammi personali, vissuti sempre come “parte del tutto”, e ai più tremendi orrori del regime sovietico: è ricordata per “la sua stoica capacità di resistenza” ed è apprezzata per aver saputo magistralmente incarnare “il poeta di sensibilità femminile” che, con la bellezza della parola, “fa fronte a un mondo brutale” (Elaine Feinstein, Anna di tutte le Russie, La vita di Anna Achmatova, La Tartaruga Edizioni, Milano, 2006, p. 346-347).
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