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Il significato delle resurrezioni nei Vangeli: riflessione su Luca 7,11-17

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14/06/2017

Tratto da:
Enzo Bianchi, “Ragazzo, àlzati!”, monasterodibose.it/preghiera/vangelo/10521-ragazzo-alzati

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

In questa riflessione Enzo Bianchi, fondatore della comunità monastica di Bose, illustra il significato profondo delle resurrezioni operate da Gesù nei vangeli, dai profeti nell’antico testamento e dai primi discepoli negli “Atti degli apostoli”. Resurrezioni provvisorie, nel senso che quanti sono stati risuscitati sono poi nuovamente morti, ma ugualmente straordinarie e potenti nel simboleggiare tre realtà decisive per il credente:
- Dio è signore della natura, e può sconfiggere la morte biologica restituendo alle sue creature il soffio della vita;
- al termine della storia, il Padre donerà ai suoi figli la vita eterna, di cui le resurrezioni storiche sono un segno;
- il ritorno alla vita biologica rappresenta infine la sconfitta del male e del peccato, della disumanizzazione che talvolta sfigura le nostre esistenze, facendo di noi, pur vivi, esseri morti alla speranza e al futuro.
Proprio rispetto a questa terza valenza il messaggio del vangelo può dilatarsi sino a diventare significativo anche per chi non crede, anche per chi non accoglie nella propria visione del mondo l’orizzonte soprannaturale ed escatologico caratteristico del cristianesimo. Se infatti “resuscitare da morte” significa anche ascoltare il pianto degli altri, fermarsi e tendere loro la mano, aiutarli a ritrovare il senso perduto della vita, allora questo atto straordinario di Cristo è alla portata di tutti noi, «se non passiamo oltre e non siamo induriti di cuore».
Che crediamo o meno alle resurrezioni narrate dai vangeli, che ci lasciamo interpellare o meno dalla vicenda terrena di Gesù e dalla sua promessa di ritornare per donarci la vita eterna, oggi stesso siamo chiamati a fare la nostra parte nella lotta contro il dolore e le ingiustizie del mondo, perché «il pianto è sempre un’invocazione» che ci chiama a una risposta responsabile e concreta.
Gesù, dopo il “discorso della pianura” (cf. Lc 6,20-49) torna a operare segni messianici di liberazione dal peccato, dalla malattia e della morte. Subito dopo Giovanni il Battista, che si chiede se Gesù sia davvero il Veniente, il Messia promesso (cf. Lc 7,19-20), riceve in risposta dallo stesso Gesù queste parole: «I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi ascoltano, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia» (Lc 7,22).
Ed ecco, infatti, un’azione messianica compiuta da Gesù, la resurrezione di un ragazzo. Mentre egli si sta recando a Nain, attorniato dai suoi discepoli e da una folla di simpatizzanti, incontra un altro corteo, che sta accompagnando alla sepoltura un morto, «il figlio unico di una madre rimasta vedova». La sofferenza è grande per questa donna che, oltre ad aver perso gli affetti più cari, non ha più alcuna protezione per il futuro: la sua vita è ormai triste e molto precaria. Da ebrea, ella sa che Dio protegge la vedova (cf. Sal 145,9), dunque che nella sua condizione ha il Signore come sostegno e vendicatore, ma questa convinzione di fede non può rimuovere il suo dolore. La donna piange e il pianto è sempre un’invocazione, un’altra forma di grido, una manifestazione del proprio incontenibile dolore.
Ma ecco l’incontro inatteso con Gesù, che arresta il suo cammino, ferma il corteo, tocca la bara e dice alla donna: «Non piangere!». Egli fa questo – attesta Luca in questo episodio che lui solo riporta – perché nel vedere tale situazione è preso alle viscere, si sente stringere le viscere, prova un sentimento, una pulsione profonda che è insieme commozione, fremito, compassione (esplanchnísthe). La vista della sofferenza desta in noi tutti, se non passiamo oltre e non siamo induriti di cuore, una pulsione alla quale non resistiamo, perché s’impone a noi come richiesta di partecipazione alla sofferenza. Gesù, che sempre guarda, vede, discerne e si avvicina, si fa prossimo (cf. Lc 10,36), prova anch’egli questa emozione profonda, ma con l’autorevolezza del Kýrios, del Signore, dice alla donna: «Non piangere!». La consola, le dà speranza, non usa molte parole, dice l’essenziale, sapendo che il dolore non sopporta troppi discorsi!
Poi, mentre tiene la mano sulla bara, dice al morto: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Gesù emette la sua parola potente, chiama personalmente il morto dicendogli: «Eghértheti, rialzati, svegliati!». È un verbo pregnante (egheíro), che designa la resurrezione di Gesù (cf. Lc 9,22; 24,6.34) e la resurrezione degli eletti alla fine dei tempi (cf. Lc 20,37), nonché il dono della vita nuova al peccatore (cf. Ef 5,14). È parallelo a un altro verbo – anazáo, rivivere – utilizzato per indicare la nuova situazione del figlio scappato dalla casa paterna che «era morto ed è tornato in vita» (Lc 15,23; cf. anche Lc 15,32). Certamente il figlio della vedova di Nain era morto, ma il suo sonno di morte che situazione voleva esprimere? Perché la morte può essere fisica, ma a volte è quella della vita interiore, dovuta alla disumanizzazione, al male vissuto, al peccato. Quante volte una madre piange il proprio figlio come morto, sapendolo perduto nelle spire del male, della morte che lo divora: sì, ci sono molto più ragazzi morti seppur biologicamente vivi, rispetto a quelli che perdono la vita… Ebbene, la parola autorevole ed efficace di Gesù ha il potere di chiamare a vita nuova, di far indietreggiare la morte e di vincere ogni contraddizione alla vera vita. E così il morto si rialza e comincia a parlare: riprende la sua postura di uomo eretto, in piedi, e torna nuovamente a comunicare con gli altri.
Il racconto di Luca è indubbiamente ispirato a quello presente nel Primo libro dei Re, che ci testimonia la resurrezione del figlio di una vedova ad opera del profeta Elia (cf. 1Re 17,17-24). In entrambi i casi il profeta, l’uomo di Dio, di fronte al male che attanaglia una povera vedova opera l’indicibile: mostra che Dio può dare la vita ai morti! Non a caso Eliseo, discepolo di Elia, opererà un miracolo simile (cf. 2Re 4,18-37) e i discepoli di Gesù Pietro e Paolo saranno capaci di rinnovare il medesimo segno per Tabità (cf. At 9,36-41) ed Eutico (cf. At 20,7-12). A nessuno sfugge però che quanti sono stati risuscitati dai profeti, da Gesù e dagli apostoli poi sono nuovamente morti. Non dobbiamo dimenticarlo, per cogliere il “segno” operato da Gesù come profezia e anticipazione, non come realtà definitiva, quella che tutti ancora attendiamo. La resurrezione finale, nell’ultimo giorno, il giorno della venuta definitiva di Cristo, sarà un’altra cosa: non più rianimazione di un cadavere (come anche nel caso di Lazzaro; cf. Gv 11,1-44), ma vita nello Spirito di Dio per sempre, vita eterna.
Dobbiamo però ammettere che di fronte a questi racconti oggi restiamo perplessi, non osiamo credervi, ma ci interroghiamo su cosa e come sia realmente accaduto, soprattutto quando veniamo a conoscenza che al tempo di Gesù grandi miracoli erano attestati anche nel mondo pagano, da parte degli dei (si veda per esempio la Vita di Apollonio di Tiana scritta da Filostrato; si veda in particolare la resurrezione di una ragazza in IV,45). Eppure siamo testimoni che per alcune persone è stato possibile passare dalla morte alla vita, dalle profondità infernali alla vita buona, proprio grazie all’incontro con il Signore Gesù. Dunque la nostra fede non è ispirata a favole o a miti (cf. 1Ti 1,14; 2P 1,16) ma è innanzitutto ascolto di ciò che abbiamo visto, di ciò che è stato operato e di cui siamo testimoni; ci sono infatti in ogni luogo e tempo persone attraverso le quali Dio opera resurrezioni per chi è perduto, senza vita, morto.
Tutti continuano a morire, come al tempo di Gesù, come in ogni tempo, ed egli ne ha risuscitati solo pochi, per darci un segno profetico, escatologico: un giorno, quando «non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,4), tutti risorgeranno, cioè vivranno una vita in Dio per sempre. Questo evento finale è in corso: Gesù è venuto come grande profeta, in lui Dio ha visitato il suo popolo, e presto compirà la visita ultima, definitiva e gloriosa. Allora finalmente Cristo, il Signore vincitore della morte (cf. 2Ti 1,10), darà la vita eterna e divina a tutti i figli e le figlie di Dio.

Il brano del Vangelo di Luca

Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante (Lc 7,11-17).

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. E’ stato priore dalla fondazione del monastero sino al 25 gennaio 2017: gli è succeduto Luciano Manicardi. La comunità oggi conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele), Ostuni (Brindisi), Assisi e San Gimignano.
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
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