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Religione e dolore: quando la violenza viene in nome di Dio

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04/12/2013

Tratto da: Enzo Bianchi, Quando la violenza viene in nome di Dio, La Stampa, 22 novembre 2013

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

In questo breve articolo Enzo Bianchi, priore di Bose, tratta del rapporto sottile e pericoloso che si può instaurare fra cristianesimo e violenza: un nesso quasi inevitabile quando la ricerca della verità si trasmuta in certezza della verità; quando si assolutizzano le immagini di Dio, sempre parziali e relative; quando ci si rifiuta di lasciarsi giudicare dalla storia e dal vangelo.
Le conseguenze con cui facilmente si perverte l’idea stessa di Dio si giocano sul piano dei grandi eventi, come nelle piccole vicende di ogni giorno: è così che la croce, segno inequivocabile del Dio di Gesù Cristo, «un Dio che non solo non è violento, ma che non si difende», è potuta diventare «il segno dei crociati e di tutti coloro che l’hanno impugnata come una spada». Ma è altrettanto così che, in nome della croce, si è potuto e si può dare spazio a una violenza quotidiana fatta di «gesti, parole, silenzi, emarginazioni, umiliazioni, veti» che procurano sofferenza e dolore: Bianchi non lo dice, ma noi pensiamo ai tanti “dottori della legge” che caricano uomini e donne di pesi insopportabili, che loro «non toccano nemmeno con un dito» (cfr. Luca 11,46).
La chiave per uscire da questa logica vecchia di secoli, eppure attualissima, sta secondo Bianchi nella capacità di ricordare come la salvezza cristiana non sia «rimozione della violenza né esenzione dalla violenza, ma assunzione e traversamento della stessa, compiuti però dalla parte delle vittime e non degli aguzzini». E’ questo il salto di qualità decisivo, che fra l’altro pone al riparo da insidiose velleità di redenzione del mondo. Solo la faticosa, quotidiana e sempre rinnovata imitazione di Gesù di Nazareth, «vittima della violenza ingiusta, della violenza fisica, della violenza religiosa, della violenza politica, della violenza verbale, della derisione, della calunnia, del disprezzo» può fornire al cristiano – e anche al non credente nella misura in cui l’esempio di Cristo esprima un’etica umana prima che religiosa – l’antidoto per non diventare a propria volta violento nelle idee e nelle relazioni.
Esiste un rapporto cruciale tra la violenza e l’altro. Solo un radicale rinnovamento nella comprensione della “verità” può aiutare a vedere nell’altro – nel diverso da me per cultura, religione, etnia, etica – non qualcuno da demonizzare, escludere o convertire, ma qualcuno con cui entrare in relazione per conoscerlo, per dialogare e apprendere da lui, per discernere quei semi del Logos che un’antichissima dottrina cristiana dice diffusi in ogni essere umano e in ogni cultura e tradizione religiosa. Il Dio rivelato da Gesù Cristo non è forse il Dio che ha creato ogni essere umano a sua immagine e somiglianza? L’altro, allora, è occasione di comunione, non di esclusione. Il vangelo ci critica e ci giudica quando – come è avvenuto a più riprese anche nella storia cristiana – ci costruiamo noi stessi il nemico mutando l’alterità in occasione di inimicizia.
Si pensi a quella trasformazione di un’alterità parziale in alterità assoluta che è alla radice della “creazione” dell’eretico e della sua demonizzazione che lo rende un nemico da condannare, estirpare, eliminare. Il cristiano dovrebbe rimettersi, nella valutazione della violenza esercitata in nome di Dio dai cristiani nella storia, a quei due giudici che sono il vangelo eterno e la storia. Anche nel ripensamento critico del proprio passato in atto nella chiesa cattolica a partire da papa Giovanni, più che lasciarsi andare a giudizi sommari e astorici o a frettolosi “mea culpa” e attestazioni di rincrescimento – in realtà più simili a tentativi di rimozione che non autentiche assunzioni di responsabilità – occorre immettersi anzitutto nella faticosa e lunga opera della conoscenza storica. Questa è il primo antidoto per superare quelle che oggi ci appaiono come laceranti e insopportabili contraddizioni di ideali e comportamenti evangelici.
Ma vale la pena interrogarsi anche su un altro elemento: le rappresentazioni, le immagini di Dio che guidano la fede dei singoli e delle chiese. Le immagini violente di Dio, presenti anche nella Bibbia, significano forse di per sé una divinizzazione della violenza stessa? In realtà, la riduzione di Dio alle sue immagini diviene immediatamente una riduzione a idolo. Vale per le immagini di Dio quanto possiamo applicare alle definizioni della verità: esse non possono esaurire la realtà a cui si riferiscono e di cui sono riflessi, indicatori, approssimazioni. In questo senso occorrerebbe saper sempre cogliere la relatività di ogni immagine di Dio e il suo necessario superamento. E occorrerebbe vedere nella croce il simbolo su cui devono infrangersi tutte le immagini del Dio cristiano. Proprio perché sulla croce non si ha la proiezione di un’immagine umana del divino, ma un uomo che è l’immagine stessa di Dio e racconta Dio. E si tratta di un uomo sofferente, di una vittima della violenza: della violenza ingiusta, della violenza fisica, della violenza religiosa, della violenza politica, della violenza verbale, della derisione, della calunnia, del disprezzo… E’ importante che al cuore della fede cristiana vi sia una storia di passione e di morte cruenta, cioè una storia di violenza. La violenza, ha scritto Paul Ricoeur, è “di sempre e di ogni luogo” e la salvezza cristiana non è rimozione della violenza né esenzione dalla violenza, ma assunzione e traversamento della stessa, compiuti però dalla parte delle vittime e non degli aguzzini. Sulla croce c’è stata l’epifania del Dio di Gesù Cristo, un Dio “al contrario” rispetto alle immagini tradizionali di Dio nelle religioni: non solo il Dio cristiano non è un Dio violento, ma è un Dio che non si difende.
E’ ben vero che anche la croce si è rivelata nella storia un’immagine ambigua, designando da un lato il condannato a morte, i cristiani segnati dalla croce che hanno preferito farsi martirizzare piuttosto che usare violenza, e dall’altra finendo per apparire sui labari delle legioni di Costantino, divenendo il segno dei crociati e di tutti coloro che l’hanno impugnata come una spada, non portata come lo strumento della propria esecuzione. Ma questo ci rivela la perversione possibile di ogni immagine – anche della più inequivocabile – se scissa da quello Spirito che è ciò che veramente deve essere recepito perché si possa vivere la fedeltà al vangelo nelle diverse situazioni storiche.
Inoltre, senza evocare i grandi problemi solitamente connessi al rapporto fra religione e violenza – la violenza e il sacro, il problema delle implicanze politiche del monoteismo, le teorizzazioni circa la guerra “giusta” o “santa”... – la luce che viene dallo Spirito e dalla parola della croce illumina e smaschera una dimensione della violenza molto più quotidiana, e certo meno clamorosa, costituita da gesti, parole, silenzi, difetti di comunicazione, emarginazioni, creazione di clima di paura, umiliazioni inflitte, veti, e soprattutto quella mancanza di franchezza, di sincerità, di chiarezza che impediscono di vivere la chiesa come comunità fraterna e che ne forniscono non un volto materno che ispira confidenza, ma un volto spersonalizzato che incute timore.
Tutto questo ci ricorda che la rivelazione biblica si preoccupa del cuore umano e cerca di renderlo nonviolento. Perché è dal cuore che escono le intenzioni violente e omicide, le prevaricazioni e i soprusi. Ed è il cuore che, evangelizzato, può conoscere la beatitudine della mitezza. Cioè la partecipazione per fede alla prassi del Messia mite e dolce, umile e nonviolento: prassi che è di per sé preannuncio e profezia del regno di Dio, un regno di pace universale, e lo è al cuore stesso della nostra umanità e delle società in cui viviamo e che siamo chiamati a umanizzare.

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele) e Ostuni (Brindisi).
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
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