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Dopo il dolore, la gioia della maternità

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19/11/2010

Le vostre lettere alla nostra redazione

Il giorno della nostra prima volta non avremmo mai immaginato che per i dieci anni successivi fare l’amore avrebbe significato per me un dolore e un bruciore indicibili e di conseguenza ansia, disperazione e frustrazione per entrambi.
Pensavamo che fosse semplicemente un problema di inesperienza o una mia sensibilità al lattice del profilattico. Così a distanza di qualche mese mi decisi ad andare dal ginecologo per farmi prescrivere la pillola. La scelta cadde sul ginecologo di mia madre, un dottore di una certa età, “con esperienza”. Mi disse che era tutto normale; c’era stata la deflorazione e potevo avere rapporti senza problemi. Alla mia insistenza sulle difficoltà ad avere un rapporto non doloroso si limitò a ipotizzare che fosse il partner a non essere sufficientemente accorto e delicato in quei momenti. Uscii di lì molto rammaricata perché in realtà sapevo che il mio fidanzato era sempre stato attento e rispettoso, pronto a fermarsi non appena capiva il mio stato.
Malgrado le rassicurazioni, per noi fare l’amore era impossibile. L’amore lasciava il posto all’ansia prima, al terrore durante, e a un’infinita tristezza dopo.
Diradammo sempre più i tentativi, ma non volevamo arrenderci a un amore incompleto, a metà.
Passarono così gli anni fino a quando, mossi dal desiderio di un figlio, decidemmo di rivolgerci a un altro medico, questa volta una donna, pensando che potesse essere più sensibile e capire meglio il problema. Fu invece un’esperienza terribile e devastante: dopo avermi chiesto di sopportare meglio l’entrata dello speculum, diagnosticò una Candida che comunque a suo avviso non giustificava la mia avversione per i rapporti. Chiedendomi poi perché dopo tanti anni di fidanzamento non fossi ancora sposata, insinuò che forse il problema era nella mia testa (insicurezza nel rapporto col partner = chiusura e dolore nell’intimità). Toccai il fondo quando mi disse che era controproducente avere avuto rapporti solo con il mio fidanzato, perché così non potevo sperimentare se il mio corpo avrebbe reagito diversamente con un altro partner. Inoltre dovevo “ottimizzare” i rapporti, se volevo avere un figlio.
Decisi a non piegarci a una logica che non ci apparteneva, contattammo un’altra ginecologa che aveva studiato il problema del dolore femminile ridando fiducia a tante donne con il mio stesso problema.
Con lei ebbi la mia vera prima visita: fu gentilissima, delicata (a differenza degli altri non usò lo speculum), conosceva esattamente “i luoghi del mio dolore” e soprattutto, oltre alla cura da seguire per il mio disturbo (vaginismo con conseguente vestibolite vulvare), mi disse quanto tempo questa avrebbe richiesto: circa 6 mesi. Un orizzonte concreto, una vita sessuale che iniziava e una esistenziale che riprendeva da dove si era interrotta.
A sei mesi esatti dal primo appuntamento, e ad un mese dalla ripresa dei rapporti, sono rimasta incinta facendo l’amore senza dolore e senza calcoli. Sarebbe già sufficiente per esserle grata per sempre, ma la dottoressa non si è accontentata. Infatti, dopo un decorso abbastanza sereno, le analisi in gravidanza avevano evidenziato un possibile ritardo di crescita intrauterino. L’ho subito contattata e lei, chiamandomi personalmente, mi ha consigliato di trasferirmi in una città che aveva un ospedale specializzato, mettendomi in contatto con il primario. Non è stata solo una misura di prudenza, ma la salvezza mia e del mio bambino!
Non dimenticherò mai quel giorno. Da una settimana ci trovavamo in un albergo vicino all’ospedale, attendendo il lieto evento, quando un pomeriggio ebbi all’improvviso una copiosa perdita di sangue. Quattro minuti di taxi, i più lunghi della nostra vita. Sento il rumore del sangue che cade sul pavimento e il medico che mi dice: «Il travaglio non è ancora iniziato, dobbiamo operare d’urgenza, firmi il consenso all’operazione». Sono in sala operatoria, non so cosa ci succederà, ma so che più in fretta di così non si poteva fare. Quando al risveglio mi riportano in camera mio marito ha già visto nostro figlio e assistito al suo bagnetto, ma mi racconterà poi di aver ricominciato a respirare solo dopo aver saputo che anch’io stavo bene...
Oggi nostro figlio ha tre anni, e la dottoressa scherzosamente lo chiama “il mio piccinin”: come darle torto?
Una sola parola: coraggio!
Giorgia R.

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