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Accanto al malato – Parte 1: L'accompagnamento

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16/02/2011

Tratto da:
Luciano Manicardi, L'umano soffrire, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI) 2006, p. 39-43

Si ringrazia l’editore per la gentile concessione

Guida alla lettura

In questo, e nei prossimi due appuntamenti della nostra rubrica, proponiamo una riflessione in tre parti di Luciano Manicardi, monaco di Bose, su come porsi concretamente nei confronti della persona sofferente e ricoverata in ospedale. Iniziamo con l’accompagnamento, una prassi sempre più diffusa e sulla quale anche la pastorale della Chiesa cattolica ha sviluppato le proprie riflessioni. Nelle due successive puntate, parleremo invece di visita e condivisione. Dalle parole di Manicardi emergerà una volta di più come la relazione con il malato debba essere innanzitutto umanizzante e finalizzata al sollievo fisico ed emotivo, contrariamente alla logica della rassegnazione e all’esaltazione del dolore che permea purtroppo molta spiritualità tradizionale.
Manicardi, attraverso un’argomentazione tesa ed efficace, ci aiuta innanzitutto a capire che cos’è e soprattutto che cosa non è l’accompagnamento del malato: non è un lavoro retribuito, né una visita occasionale, né una “buona azione”, ma un impegno che nasce nella libertà e nella gratuità, cresce nella perseveranza e mira a stabilire una “buona relazione”.
Poi passa a delineare alcune condizioni essenziali per un accompagnamento di qualità, valide per laici e credenti: la chiarificazione dei motivi che spingono a una scelta di questo tipo; il mantenimento di una “distanza salutare” rispetto al malato; il costante impegno per situare la relazione nello spazio dell’autenticità; l’importanza dell’ascolto, e il ruolo delicatissimo che in tale ascolto gioca il linguaggio del corpo; la conoscenza dei propri limiti, contro ogni tentazione o delirio di onnipotenza; la capacità di accettare gli eventuali momenti di stanchezza o di fatica nei confronti del malato; e infine la disponibilità ad acquisire competenze tecniche e a creare rapporti fruttuosi anche con i medici e i familiari del malato.
Infine – e qui la riflessione si fa specifica per il credente – Manicardi ricorda come l’accompagnatore cristiano possa sempre contare anche sull’azione dello Spirito santo, e sulla presenza costante di Dio.
Oramai da alcuni decenni l’espressione “accompagnamento del malato” si è venuta diffondendo negli ambienti della pastorale sanitaria e in tutti quegli ambienti interessati a umanizzare la situazione di sofferenza in cui il malato si trova. Di che cosa si tratta? Non si tratta di una relazione tra funzioni o ruoli (medico-malato), ma tra persone: essa afferma il primato della relazione e la qualità personale del malato. Non è una prestazione che debba venire remunerata con denaro, ma sta nello spazio della gratuità. Non è una visita occasionale, ma si inscrive nella durata ed esige la fedeltà e la perseveranza dell’accompagnatore. Non è lasciata semplicemente alla spontaneità, ma è una scelta: e una scelta sia da parte del malato (che desidera tale accompagnamento o accetta la proposta di essere accompagnato) che dell’accompagnatore (che fa di tale attività un atto di libertà e di responsabilità e che deve anche essere aperto a ricevere dei rifiuti da parte del malato). Non è una scienza, ma un’arte che si impara giorno dopo giorno. Non è tanto una “buona azione”, quanto una “buona relazione”, o almeno la faticosa e quotidiana costruzione di tale relazione buona. Essa è pertanto molto esigente, coinvolgente, e non può essere lasciata semplicemente all’improvvisazione.
Essendo anzitutto una relazione in cui l’accompagnatore si pone in una situazione di radicale accoglienza e ascolto del malato, essa esige da lui una profonda qualità umana. E anzitutto richiede conoscenza di sé e l’attitudine a quel lavoro interiore che porta alla chiarificazione dei motivi che spingono una persona a volersi impegnare in una tale relazione. Si tratterà infatti di divenire “presenza” per il malato, ma mantenendo quella distanza salutare che impedisce la fusionalità, custodisce la libertà del malato e mantiene la relazione in uno spazio di autenticità. Inoltre questa distanza assicura anche all’accompagnatore momenti e tempi di “respiro”, di tranquillità con se stesso. Infatti, la relazione di accompagnamento di un malato impegna profondamente anche a livello emotivo, e l’accompagnatore dovrà saper essere maturo ed equilibrato in questo gioco relazionale: capace di lasciare trasparire le proprie emozioni all’interno di una comunicazione sincera, ma anche di non lasciarsene travolgere o di non turbare il malato con un’emozionalità non controllata. Questa conoscenza della propria umanità è dunque un requisito essenziale per un accompagnatore.
L’autenticità deve sempre trasparire nell’agire e nella persona dell’accompagnatore: se l’accompagnamento è vissuto come un dovere, fosse pure santo e virtuoso, esso entra nell’inautenticità; se l’accompagnatore ha come obiettivo quello di “convertire” il malato o di convincerlo a “diventare come lui”, non fa opera di accompagnamento, ma di sciacallaggio. L’accompagnatore deve poi sapere che la difficile relazione in cui si è impegnato richiede pazienza, attesa dei tempi dell’altro, il rimettersi al malato come guida della relazione (così che anche l’accompagnatore si trova a sua volta accompagnato).
L’ascolto del racconto del malato esige molta attenzione e un atteggiamento di accoglienza. Certo, non sempre l’incontro sarà abitato da parole e si esprimerà in un colloquio, ma l’ascolto richiede attenzione anche al linguaggio del corpo, ai lineamenti del viso, agli sguardi: il corpo, infatti, è trasparenza delle emozioni, soprattutto quando ci si trova in situazioni di debolezza e di sofferenza, e chi ha praticato accompagnamento di malati conosce l’intensità di comunicazione che può essere raggiunta da uno sguardo o da un contatto tattile.
Conoscere le proprie facoltà sensoriali, le proprie capacità mentali, la propria intelligenza e la propria volontà, deve andare di pari passo con la conoscenza dei propri limiti e delle proprie fragilità e debolezze, che divengono anche l’umile coscienza dei limiti del proprio accompagnamento: conoscendo i nostri limiti sapremo di non essere onnipotenti, di non poter seguire tutti i malati, e sapremo soprattutto quali sono le nostre deficienze in quelle relazioni in cui ci impegneremo. Inoltre, nella coscienza della propria reale debolezza ci si situa nella propria intima verità e ci si rende più vicini a colui che vive la debolezza della malattia.
L’accompagnatore deve anche riconoscere diritto di esistenza e di ospitalità al sentimento di stanchezza o al senso di affaticamento che vede eventualmente nascere in sé nei confronti del malato, a quei sentimenti e a quelle emozioni che potrebbero ingenerare una colpevolizzazione, ma che vanno riconosciuti, nominati e affrontati. Insomma, egli non deve temere la propria umanità.
L’accompagnatore spesso non ha competenze mediche o psicologiche specifiche, ma deve avere una competenza umana che renda significativa la sua relazione con il malato. Poi, è certamente necessario un approfondimento della conoscenza di “ciò che avviene” durante una relazione di aiuto ed è bene approfondire la conoscenza dell’ambiente in cui vive il malato e del suo funzionamento; è bene intrattenere relazioni con il personale medico e infermieristico che ha rapporti con il malato; è cosa buona se si riesce a instaurare un legame cordiale con i familiari del malato... Insomma, sono necessarie l’apertura e la disponibilità a un lavoro di formazione continuo (studio e acquisizione di competenze, ma anche duttilità umana e creazione di rapporti): può essere “accompagnatore” solo colui che è “in cammino”. Si tratta infatti di camminare accanto a qualcuno per un tratto di strada, e una strada particolarmente accidentata come quella della malattia. Sempre rispettando la volontà del malato, l’accompagnatore potrà veder venire il momento in cui proporre una preghiera insieme o l’accostamento a un gesto sacramentale. Certo, nulla può essere predeterminato nel cammino di accompagnamento del malato, ma occorre disponibilità illimitata verso il volere del malato e apertura all’azione dello Spirito santo, prontezza di spirito e creatività!
Infine, è importante ricordare che l’accompagnatore non è isolato, non agisce individualisticamente, in proprio nome, ma a nome di un’istituzione, e l’accompagnatore cristiano compie un’azione ecclesiale, opera a nome della comunità cristiana, e pertanto cercherà sempre di comportarsi come “inviato” che agisce a nome della chiesa e di vivere la relazione con il malato come una relazione a tre, in cui il Terzo presente fra lui e il malato è il Signore stesso.

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi e, dal 2009, Vice Priore.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.

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