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Un trattamento doppio e umiliante

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19/09/2018

Tratto da:
Thomas Bernhard, Il freddo, Adelphi, 2002, p. 103

Guida alla lettura

“Il freddo” è il quarto e penultimo volume dell’autobiografia di Thomas Bernhard, e narra il periodo trascorso dallo scrittore, fra i diciotto e i diciannove anni, nel tetro sanatorio pubblico di Grafenhof, in Austria. Ed è – come sottolinea il risvolto di copertina dell’edizione di Adelphi – la storia di una «lotta durissima per l’esistenza, dove la malattia che assale il giovane Bernhard è al tempo stesso una malattia terribilmente fisica e una malattia dell’anima».
Il brano che proponiamo offre un rapido affresco del brutale sistema di gestione, dove gli ospiti di riguardo e gli “altri” vivono in ambienti rigidamente separati – fatto salvo il dettaglio eloquente dei “servizi in comune nel corridoio”. Tutto è diverso nel trattamento delle due categorie di pazienti: le camere, il cibo, il clima generale delle giornate. Ma ciò che colpisce di più è l’atteggiamento delle suore: ossequiente con i consiglieri, i professori, le contesse; rozzo e volgare con le gente comune, meno abbiente e meno in vista. Neppure la privacy viene rispettata nei reparti “normali”: laddove nelle logge dei ricchi si bussa prima di entrare, qui si entra e basta, incuranti del pudore dei ricoverati.
Sono situazioni che, purtroppo, esistono ancora qua e là, e non solo negli ospedali dei Paesi meno evoluti: inservienti che danno del tu a chiunque, anche agli anziani, senza senso del rispetto dovuto a chi, oltre alla malattia, patisce l’avvicinarsi del tramonto della vita; infermiere e infermieri che, con malcelato compiacimento, si lasciano ossequiare per fare semplicemente il proprio dovere; medici che trattano i ricoverati come “casi” destinati ad alimentare le loro statistiche. E tutto questo senza arrivare ai maltrattamenti da codice penale che talora si scoprono nelle cosiddette case di riposo.
A queste situazioni penose si contrappone per fortuna una grandissima schiera di professionisti capaci e per bene, per i quali i pazienti sono innanzitutto persone di cui prendersi cura, con competenza e coinvolgimento emotivo, nella consapevolezza che talvolta l’assistenza cordiale è più importante della stessa guarigione, una guarigione che, purtroppo, non sempre arriva per tutti.
C’erano sei o sette logge, la metà delle quali occupata dai cosiddetti privilegiati, che a me però non è quasi mai capitato di vedere, e comunque ho sempre avuto l’impressione che si trattasse di individui terrorizzati all’idea di venire a contatto con gli altri pazienti e quindi con noi, e a cui si leggeva in faccia quanto per loro fosse penoso dover usare i servizi comuni nel corridoio. Erano vestiti meglio degli altri e si sforzavano di usare un linguaggio migliore quando parlavano, ma non parlavano quasi mai, e comunque non con gente come me. Mi capitava di continuo di sentir menzionare i più svariati titoli, e il Signor Consigliere, la Signora del Consigliere, il Signor Professore, la Signora Contessa mi sono rimasti in mente. Le suore, con una cerimoniosità che risultava disgustosa ai miei occhi, si davano un gran da fare dove imperversavano quei titoli e coloro che li portavano, individui protetti, indisturbati, addirittura vezzeggiati. Quando le suore arrivavano da noi, provenendo dalle logge della cosiddetta gente bene, i loro voti si rabbuiavano, il loro tono di voce cambiava completamente, non si sforzavano più di parlare in maniera distinta, riprendevano il loro solito linguaggio rozzo, volgare, brutale. Il cibo che portavano in quelle camere era completamente diverso dal nostro, presentato in maniera completamente diversa, e assai più elaborato. Là bussavano alla porta prima di entrare, alla nostra porta non si bussava, si entrava e basta.

Biografia

Scrittore e poeta. Thomas Bernhard, tra gli autori più letti del Novecento, è stato entrambi: l’una forma di espressione legata all’altra. Dello scrittore ricordiamo, perché ormai celeberrimo, “Il Soccombente”, storia leggermente autobiografica, per via degli studi violinistici, di tre pianisti che si incontrano, e confrontano, a un corso di Vladimir Horowitz a Salisburgo. Due di questi, uno è il narratore, non sono certo privi di talento. Ma il terzo si chiama Glenn Gould. Davanti alle sue Variazioni Goldberg non si può che soccombere e il romanzo è il racconto di un fallimento, dell’umiliazione, dell’invidia, come in Mozart e Salieri (secondo la leggenda), ma anche dei sentimenti di impotenza e di frustrazione. Nel Thomas Bernhard poeta, invece, predominano la disperazione, i toni cupi. Il tema più affrontato è spesso la morte. La natura ospita le sue disperazioni, come nella lirica che abbiamo scelto: «…in un tappeto di verde ricamo i miei dolori rossi». E in un’altra scrive: «Nessun albero e nessun cielo ti consolerà… ormai nessun arbusto ti proteggerà da fredde stelle e da rami macchiati di sangue».
La critica lo definisce “aspro, misantropo, pessimista”. Nasce il 9 febbraio 1931 a Heerlen, in Olanda. E’ figlio di una ragazza-madre che abbandona l’Austria per sottrarsi alla vergogna, in fuga da un Paese ultracattolico in cui mettere al mondo un figlio fuori del matrimonio è uno stigma. Lo affidano ai nonni praticamente ancora in fasce. Con loro vive prima a Vienna, poi a Salisburgo, negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. S’iscrive al liceo classico ma non termina gli studi. A diciotto anni è ricoverato in sanatorio. Qui comincia a scrivere, e sono subito versi d’angoscia. Pubblica anche racconti. Nel 1963 il primo romanzo, Gelo, vince il Premio Brema.
Tuttavia, si può dire che Thomas Bernhard abbia iniziato come poeta. Il suo primo sguardo sul mondo e sulla sofferenza è lirico. Esordisce nel 1957, a 26 anni, con l’antologia di “Sulla terra e nell’inferno”, alla quale segue “In hora mortis”, del 1958. E la morte, «che sempre mi accompagna come uno strascico», fa da sfondo anche a una raccolta postuma, “Sotto il ferro della luna”, 56 liriche, in realtà la terza antologia, pubblicata nel 1958, a 27 anni, perché la poesia attraversa tutta la giovinezza di Bernhard, prima che la maturità lo conquisti alla prosa e al teatro.
Varrebbe la pena, per conoscere meglio l’autore, leggere direttamente la sua “Autobiografia”, cinque libri – L’origine, La cantina, Il respiro, Il freddo e Un bambino – finiti di pubblicare nel 1982, sette anni prima di morire, il 12 febbraio 1989, a causa di una tubercolosi (destino beffardo dopo l’infanzia in sanatorio), e raccolti per la prima volta da Adelphi, stessa casa editrice del “Soccombente”. Un’opera in cui il lettore trova, nelle parole del poeta e scrittore, il senso di una vita tra tenebre e incomunicabilità, a partire dalla famiglia, che non ha mai veramente avuto: «Quanta fatica per una parola a mio padre e a mia madre, quanta fatica per una parola…». E qui ritroviamo, come suggerisce Adelphi, alcune descrizioni drammatiche: «La rete che dondola, sospesa al soffitto di un barcone in un canale di Rotterdam, dove piange il bambino messo al mondo dalla madre nubile in Olanda per non dare scandalo nell’Austria provinciale e bigotta». O i «terribili convitti frequentati in Austria, con sadici e ottusi educatori prima in divisa nazista e poi in abito talare»; o il fetido «trapassatoio, anticamera della morte nel sanatorio, tra tisici in attesa della bara di zinco».
Eppure la sua poesia è irresistibile, perché vera e spietata. E’ il Bernhard ragazzo che scrive in versi: le vicende personali gli hanno lasciato ferite indelebili, e la giovinezza non fa sconti. Confiderà a se stesso, ma coinvolgendoci in un orizzonte oscuro, nel libro “Perturbamento”, tra le pagine più nichiliste: «Noi ci costringiamo a non vedere il nostro abisso. Eppure, per tutta la vita, non facciamo altro che guardare giù, al nostro abisso fisico e psichico, pur senza percepirlo».
(Biografia a cura di Pino Pignatta)

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