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Donna sterile

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25/02/2009

Barren woman
in: Sylvia Plath, Opere, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2002

Guida alla lettura

Questa lirica di Sylvia Plath, poetessa statunitense fra le più significative del Ventesimo secolo, rappresenta il dolente lamento di una donna che non può avere figli.
Tutte le immagini della prima strofa esprimono solitudine, silenzio, assenza di vita e di calore: la donna paragona se stessa a un “museo senza statue”, ma è piuttosto a una gelida tomba che corre il nostro pensiero, mentre quella fontana che “balza e riaffonda dentro di sé” ritrae con straordinaria efficacia una forza generativa che non riesce a prendere il volo e ricade stancamente su se stessa.
Nella seconda strofa, il sogno di generare una Níke, antica personificazione greca della vittoria, e molti figli, si infrange contro la consapevolezza che “non può accadere nulla”, e che la morte – o meglio, la non vita – è la nota dominante di ogni evento. Una constatazione quasi anticipata dagli “occhi vuoti” di quei figli, pur sognati forti e belli come il divino Apollo, e forse persi con dolore durante la gravidanza.
Nell’ultimo verso, una luna inespressiva compie un gesto freddo e scontato. E la levigatissima costruzione poetica trova il suo culmine nell’uso ambiguo della parola “mum”, che come aggettivo significa “muta”, ma come sostantivo significa “mamma”: dunque, il silenzio della maternità.
Vuota, rimando l’eco di ogni minimo passo,
museo senza statue, grandioso di colonne, porticati, rotonde.
Nel mio cortile una fontana balza e riaffonda dentro di sé,
un cuore monacale, cieca al mondo. Gigli di marmo
esalano il loro pallore come profumo.

Mi immagino un grande pubblico,
madre di una bianca Níke e di molti Apolli dagli occhi vuoti.
Invece i morti mi feriscono con le loro attenzioni, e non
può accadere nulla.
La luna mi posa una mano sulla fronte,
senza espressione e muta come un’infermiera.


Empty, I echo to the least footfall,
Museum without statues, grand with pillars, porticoes, rotundas.
In my courtyard a fountain leaps and sinks back into itself,
Nun-hearted and blind to the world. Marble lilies
Exhale their pallor like scent.

I imagine myself with a great public,
Mother of a white Níke and several bald-eyed Apollos.
Instead, the dead injure me with attentions, and nothing
can happen.
The moon lays a hand on my forehead,
Blank-faced ad mum as a nurse.

Biografia

Sylvia Plath nasce a Boston (Stati Uniti) nel 1932. Il padre, di origini tedesche, è professore di entomologia; la madre proviene da un’austera famiglia austriaca e in casa parla solo tedesco.
Talento precoce, Sylvia pubblica la prima poesia nel 1940, a soli otto anni. Nello stesso anno, il padre muore di embolia in seguito a un’operazione chirurgica. Questo evento segna profondamente l’equilibrio della bambina, che in età adulta soffrirà di una grave forma di depressione alternata a momenti di intensa vitalità creativa.
Nel 1953 compie il primo tentativo di suicidio, cui segue il ricovero in un istituto psichiatrico, dove le viene diagnosticato una patologia nota come “disturbo bipolare”. Uscita dall’ospedale si laurea, con lode, nel 1955. Pochi mesi dopo ottiene una borsa di studio per l’università di Cambridge, dove approfondisce gli studi e continua a scrivere poesie. Al campus conosce il poeta inglese Ted Hughes, che sposa nel 1956 e dal quale avrà due figli, Frieda Rebecca e Nicholas. Nei tre anni successivi, insegna allo Smith College.
Trasferitasi con il marito in Inghilterra, Sylvia pubblica nel 1960 la prima raccolta di poesie, “The Colossus”. L’anno dopo subisce un aborto spontaneo: diverse liriche fanno riferimento a questo evento. Il matrimonio si incrina, anche per un tradimento di Ted, e la coppia finisce per separarsi.
Apparentemente rasserenata, Sylvia si stabilisce a Londra con i figli. Ma l’inverno del 1962 è per lei molto duro, con frequenti ricadute nella depressione. Nel gennaio 1963 pubblica con lo pseudonimo di Victoria Lucas il romanzo “La campana di vetro”, in cui descrive la crisi che l’aveva colpita nel 1953. Un mese dopo si toglie la vita, soffocandosi con il gas.
Vincitrice del Premio Pulitzer nel 1982, Sylvia Plath è ricordata come una delle più grandi poetesse statunitensi del Novecento.
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