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Mindfulness: incontrare il dolore perché non diventi sofferenza

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Mindfulness: incontrare il dolore perché non diventi sofferenza
01/09/2021

Pino Pignatta

Il brano

Siamo molto bravi a prepararci a vivere,
ma non molto bravi a vivere.
Sappiamo sacrificare dieci anni per un diploma
e siamo disposti a lavorare molto duramente
per ottenere una macchina, una casa e così via.
Ma abbiamo difficoltà a ricordare
che siamo vivi nel momento presente,
l'unico momento che abbiamo per essere vivi.
Ogni respiro che facciamo,
ogni passo che facciamo,
può essere riempito
di pace, gioia, benessere e serenità.

Thich Nhat Hanh, monaco zen

L’approfondimento

Abbiamo esaminato, nelle scorse puntate sulle meditazioni orientali, alcune pratiche, diciamo “pure”, di antichissima tradizione, che affondano le radici nei millenni, come la Vipassana di origine indiana; o lo Zazen, legato alla tradizione del Buddismo Zen, di origine cinese e poi giapponese; oppure la meditazione-camminata insegnata dal monaco vietnamita Thich Nhat Hanh, tuttora vivente, che ci ha spiegato come la consapevolezza di sé, della propria vera natura, la capacità di essere “presenti” nell’istante, nel qui-e-ora, passa anche dalla consapevolezza dei propri passi, del loro lento incedere per riportare “la mente a casa” attraverso il controllo della respirazione. Sono, queste, meditazioni strettamente intrecciate a forme di spiritualità profonda, dunque al voler essere, al decidere di essere, donne e uomini con una visione spirituale della vita, che seguono una via, e non soltanto un semplice benessere di tipo olistico.
Tuttavia, sta avendo ormai da molti anni, in tutto il mondo occidentale, largo successo di pubblico una pratica di meditazione più libera, meno legata a percorsi e intenzioni di tipo religioso-spirituale, dove la piena consapevolezza di sé e il controllo dei pensieri inseguono più direttamente il beneficio pratico dello star bene, della riduzione dello stress, della lucidità mentale, e del controllo delle emozioni all’interno di ritmi ormai insostenibili nel lavoro e nella vita stessa. E’ quella che viene comunemente chiamata meditazione Mindfulness: tutti la cercano, tutti la vogliono, tutti corrono a praticarla per cercare un antidoto, citando un celebre slogan degli anni Ottanta, “contro il logorio della vita moderna”.
Si tratta, è bene precisare, di una derivazione “laica”, meno impegnativa delle vie orientali antiche nate in India oltre 2500 anni fa. E’ una “occidentalizzazione” della meditazione buddhista originale. A un illustre medico americano, John Kabat-Zinn, va il merito di aver reso, attraverso la Mindfulness, la meditazione più fruibile a noi occidentali, senza l’ansia di un approccio spirituale che potrebbe generare sensi di colpa o inquietudine rispetto alle radici e al vissuto religioso occidentale, nella maggior parte dei casi cristiano. Dopo aver studiato la Vipassana in India e averne sperimentato i benefici, John Kabat-Zinn l’ha poi portata negli Stati Uniti, utilizzandola in modo pratico nei suoi ospedali in Massachusetts, la “Stress Reduction Clinic” e il “Center for Mindfulness in Medicine, Health Care and Society”, con risultati terapeutici sorprendenti sui pazienti malati cronici o terminali.
Al cuore dell'esperienza Mindfulness c’è l’idea del porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante. Ed è qui la principale differenza con le pratiche antiche di origine indiana o cino-giapponese: la meditazione classica, di stampo più religioso-spirituale, indica nettamente alcuni comportamenti come virtuosi, e altri come non virtuosi, chiedendo al praticante lo sforzo di abbandonarli. Nella meditazione di consapevolezza costituita dalla Mindfulness, invece, non esiste “giudizio”. Spiega Tatiana Berlaffa nel libro “Meditazione e Mindfulness, qual è la differenza?”: «Non esiste pensiero buono o cattivo. Qualsiasi esperienza e qualsiasi pensiero è accolto per quello che è, appunto, senza giudicare. La stessa assenza di giudizio è richiesta non solo nei confronti dei pensieri, ma anche per qualsiasi situazione si presenti mentre sei nella pratica di meditazione. I rumori esterni, qualche malessere fisico… tutto questo è un sottofondo inevitabile (è la vita!) e più ci esercitiamo ad accettarlo e a lasciarlo andare senza etichettarlo come gradevole o sgradevole, più impariamo davvero a praticare la Mindfulness».
Alcuni studi hanno dimostrato che coloro che meditano hanno una soglia del dolore più alta, cioè hanno una minore sensibilità alla sofferenza (Joshua A Grant et al, Cortical thickness and pain sensitivity in zen meditators, Emotion 2010 Feb; 10 (1): 43-53).
La Mindfulness aiuta a gestire tutti i tipi di dolore, che la causa sia fisica o emotiva, o un mix delle due. E qui entra in gioco quello che si chiama il paradosso del mettere attenzione, un paradosso che affonda le radici nella più pura intuizione orientale nella capacità di accettare la sofferenza fisica e mentale. Come spiegano gli esperti del Centro di Osteopatia e Medicina integrata di Roma, «quando si sente dolore, l’ultima cosa che si vorrebbe è dargli piena attenzione: infatti, prima che la meditazione facesse il suo ingresso nel mondo sanitario, le terapie cognitive per la gestione del dolore enfatizzavano pratiche di distrazione di vario tipo. La meditazione di consapevolezza, invece, è il contrario della distrazione dal dolore, incoraggia l’approccio esattamente opposto: diventare più consci, più attenti, al dolore è il vero focus. Studi sul cervello hanno mostrato che quando nel meditare si mette l’attenzione sulle sensazioni dolorose, le parti del cervello deputate a sentire il dolore fisico si illuminano, ma le parti del cervello responsabili alla sofferenza associata al dolore fisico sono meno attive (per un approfondimento dei meccanismi cerebrali che traducono il dolore fisico in sofferenza emotiva, guarda questo video).
Non è solo la quantità di attenzione ad essere rilevante, è anche la qualità di questa attenzione. Talvolta chi soffre di dolore cronico sviluppa una attenzione iper-vigilante a qualsiasi variazione nel proprio dolore, ma questo non porta a una riduzione del malessere e spesso può persino portare a un peggioramento. Il tipo di attenzione che viene coltivato nella Mindfulness è un’attenzione concentrata, tesa all’accettazione e alla chiarezza. La meditazione insegna a incontrare il dolore fisico in un modo del tutto particolare, il che ha come effetto la riduzione della sofferenza. Detto in un altro modo, si tratta di fare di tutto non per scappare dal dolore, non per fuggirlo, ma per incontrarlo, per abbracciarlo.
Chi ci ha seguito in queste puntate ricorderà che l’idea di abbracciare la sofferenza l’avevamo già incontrata nelle parole del filosofo Jiddu Krishnamurti, che qui riprendiamo, a testimonianza di come il modo di pensare e di osservare il mondo dell’Oriente abbia profondamente contaminato, con innegabili benefici, le esperienze di meditazione più terapeutiche e occidentali: «Che cos'è il dolore? È per caso autocompassione? Vi prego di domandarvelo. Non stiamo dicendo che lo è o che non lo è [...] Che il dolore sia provocato dalla solitudine, dal sentirsi disperatamente soli e isolati? [...] Possiamo osservare il dolore come concretamente si presenta in noi e restare con esso, tenerlo con noi e non distogliercene? Il dolore non è diverso da colui che soffre. La persona che soffre vuole scappare via, fuggire, fare ogni sorta di cose. Ma se contemplate il dolore come si contempla un bambino, un bel bambino, se lo tenete stretto, e non gli sfuggite mai, a questo punto vedrete da soli, se veramente guardate a fondo, che il dolore cessa. E con la fine del dolore c'è la passione; non il desiderio, non l'eccitazione dei sensi, ma la passione».
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