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La meditazione orientale: un’introduzione

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La meditazione orientale: un’introduzione
12/05/2021

Pino Pignatta

Il brano

Che cos’è ciò che noi di solito chiamiamo “io”? Noi pensiamo che solo nell’incontro con altro da sé, quando incontriamo gli altri, “io” assuma contorni propri. Per esempio, in relazione alla moglie uno vede se stesso nella veste di marito e in relazione al proprio figlio si vede nell’abito di padre. Sul lavoro vede se stesso nei panni di subordinato rispetto ai propri superiori, di inetto nei confronti dei colleghi capaci. Vede così se stesso definito nei più svariati modi: venditore rispetto ai clienti, concorrente rispetto a chi ha la medesima occupazione, povero rispetto al ricco, frustrato rispetto a una cosa che desidera ma non può avere, perdente rispetto a un vincente, impotente nei confronti della società... E allora sarebbe ben strano se uno che ha coscienza di sé solo rispetto a un ruolo, a una funzione, non finisse per soffrire di nevrosi [...] Insomma, è innegabile che di solito viviamo le nostre vite con un’autocoscienza basata su ruoli esteriori, che derivano dalle nostre relazioni con altro da noi. Ma se pensiamo che “io” sia solo questo e viviamo soltanto in funzione delle relazioni con l’altro, credo si debba dire davvero che, quale che sia il mio caso fra quelli sopra indicati, stiamo completamente perdendo di vista il vero me stesso, “io che è la vita in se stessa”.

L'approfondimento

Questo frammento tratto dal libro “La realtà della vita”, di Kosho Uchiyama, uno dei più celebri maestri Zen, introduce con efficacia ciò che è il senso profondo della meditazione orientale: ritrovare il sé originario, la vita stessa che pulsa. Iniziamo allora, con questo articolo, un itinerario alla scoperta della meditazione, anzi si potrebbe dire delle meditazioni, perché esistono più pratiche, più tecniche. Non c’è infatti un solo modo di meditare: nei millenni si sono sviluppati molti metodi tra i quali è difficile orientarsi: alcuni si differenziano per piccoli dettagli, altri sono assai diversi tra loro; alcuni si fondano su una postura che ha come base l’immobilità totale del corpo, altri sono più dinamici e prevedono la possibilità di camminare. Ma tutti questi diversi tipi di meditazione hanno mostrato, nel corso dei secoli, una comprovata capacità di rilassare la mente, le tensioni del nostro organismo, di calmare l’ansia, di indurre una stato di benessere, di consapevolezza, di quiete interiore. In una sola parola, quella che a noi qui più interessa, hanno mostrato la capacità di ridurre la sofferenza, a partire da quella interiore, psicologica, alla quale però, molto più spesso di quanto si pensi, sono associati stati di sofferenza fisica, di dolore.
Per prima cosa, spieghiamo perché abbiamo usato all’inizio l’aggettivo “orientale”. Perché per noi che siamo nati e viviamo in Occidente – e ci siamo formati all’interno di una cultura filosofica e spirituale che ha comuni radici nel pensiero greco e nella tradizione giudaico-cristiana – la meditazione ha un altro orizzonte, un’altra finalità. Filosoficamente, significa speculare, indagare intellettualmente sul senso del mondo e dell’uomo, sul significato della vita e della morte. E spiritualmente significa accompagnare la preghiera con lo studio delle Scritture. Al contrario, per tutto il mondo orientale, dall’India al Giappone, meditare significa smettere di speculare, smettere di usare il ragionamento logico, di ragionare intellettualmente. Significa riportare “a casa” la mente, cioè riportarla insieme con il corpo, non permetterle di tormentarci come una tigre che ci spinge continuamente nel passato, dove è inutile andare perché non c’è più, o nel futuro, dove è inutile avventurarsi perché non c’è ancora. Meditare, dunque, significa imparare a dimorare nell’unico tempo che esiste, il presente, l’adesso, dove esiste la realtà della vita, nel “qui e ora”.
Concetto che tuttavia – e in questo senso è rivelatore di una coincidenza che si fa meraviglia – già ai Latini non era sconosciuto, forse per avere incontrato suggestioni provenienti dall’Oriente, con l’espressione “hic et nunc” (attribuita ad Orazio), che significa non soltanto “in questo momento e in questo luogo”, ma racchiude un senso profondo, e svela il bisogno che ha l’uomo di vivere il presente per essere pienamente se stesso, consapevole (la consapevolezza, mindfullness, è al centro, come vedremo, di ogni pratica meditativa orientale) che il tempo a sua disposizione non è infinito e che la felicità si rivela nell’unico momento in cui è possibile agire e vivere, cioè questo, proprio questo, senza pensare né al futuro né al passato; pensiero poi sviluppato in filosofia dall’Esistenzialismo, che studia la fragilità e l’infelicità dell’uomo a causa della sua finitudine.
La parola “finitudine” riporta, nel mondo della meditazione orientale, alla parola “impermanenza”, uno dei concetti chiave, per esempio, del buddhismo. E la forza dell’impermanenza si manifesta massimamente proprio durante una seduta di meditazione, quando ci accorgiamo che tutto muta a impensabile velocità, nonostante siamo perfettamente immobili: sono impermanenti i pensieri che vanno e vengono senza sostanza alcuna, è impermanente persino il respiro: l’inspirazione comincia e finisce quando inizia l’espirazione, che a sua volta inizia e ha un termine.
Un articolo delle rivista Civiltà Cattolica, del 6 febbraio 1999, a proposito della pratica meditativa Zazen, ci aiuta a capire meglio come dobbiamo intendere il senso della meditazione orientale: «Bisogna mettere da parte ogni idea occidentale di meditazione: questa consiste nel riflettere su un’idea, su un testo scritto, per cercare di comprenderlo, di vederne i nessi logici e le possibili applicazioni alla realtà concreta. In campo religioso, la meditazione è una riflessione prolungata su un’idea o un fatto di natura religiosa, su un testo della Sacra Scrittura, per cercare di comprenderlo con l’intelligenza, gustarlo col cuore e applicarlo alle circostanze della propria vita, per conformare il proprio modo di pensare e i propri comportamenti a quanto si è meditato. Poiché ci si rende conto che con le proprie forze non si può realizzare nella propria vita quanto si è meditato, spontaneamente la meditazione si risolve in colloquio con Dio, sia per lodarlo e ringraziarlo di quanto ci ha detto attraverso la meditazione della sua Parola, sia per chiedergli la grazia di compiere quanto egli ci ha fatto conoscere [...] La meditazione zen, al contrario, consiste nel non riflettere su nulla, neppure sulle dottrine e sui testi sacri buddisti [...] In che cosa allora consiste la meditazione? Risponde D. T. Suzuki: “Per meditare, l’uomo deve concentrare il suo pensiero su qualcosa, ad esempio, l’unicità di Dio o il suo infinito amore o la temporaneità delle cose. Ma questo è proprio quanto lo zen respinge”. Infatti, la meditazione zen vuole svuotare la mente da ogni pensiero, da ogni affermazione e da ogni negazione, da ogni elaborazione concettuale, per giungere al puro vivere, al puro essere, spoglio di ogni determinazione: “Ciò che lo zen aspira a cogliere nel suo modo più vivido e diretto è il fatto fondamentale della vita nel suo darsi [...]. Una volta che l’uomo l’abbia raggiunto in profondità, una pace assoluta subentra nella sua mente ed egli vive come dovrebbe vivere”, cioè “vive”, “è”, semplicemente».
Molte di queste tecniche meditative orientali hanno dimostrato nel tempo di essere efficaci nel controllare stati di depressione, attacchi di panico, ansia, e una di queste, la più celebre, la Vipassana, che arriva da noi dall’India, il Paese che ha donato al mondo la meditazione, in alcuni ospedali è ogni giorno utilizzata per ridurre anche stati di sofferenza, con risultati pratici assai interessanti (ne parleremo nella prossima puntata).
Ciò che è qui importante capire è che la meditazione “non si fa”. La meditazione è qualcosa che “si è”. Anche se si tratta di una pratica perché ha delle regole di postura, la meditazione è semplicemente “essere”, totalmente presenti e consapevoli attraverso il controllo della respirazione, che ha un potere terapeutico di grande forza (un solo, profondo, respiro calma immediatamente) e, soprattutto in Occidente, del tutto sottovalutato. Noi viviamo nel conflitto, nell’ansia, nella fretta, nella competizione, nell’angoscia di dimostrare a noi stessi, e agli altri, che siamo bravi, preparati, competenti, intelligenti, colti, combattivi, agguerriti. Sogyal Rinpoche, un maestro buddhista tibetano, ha scritto: «Meditare è esattamente l’opposto. E’ fare uno stacco totale dal modo “normale” di agire; è uno stato libero da affanni e preoccupazioni in cui non c’è competizione, né desiderio di possedere le cose, o le persone, giacché non vengono percepite dualisticamente; non vi è un’intensa e ansiosa lotta, né sete di conquista. E’ uno stato esente da ambizione in cui non c’è accettazione né rifiuto, aspettativa o paura, uno stato in cui a poco a poco lasciamo la presa su quelle emozioni e su quei concetti che ci tengono prigionieri».
Uscire da questa “prigionia”, grazie a qualche pratica di meditazione, ha benefici influssi sullo stato psicofisico ed è una possibile via di liberazione dalla sofferenza.

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