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La meditazione zen: un «dove» infinito senza sofferenza

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La meditazione zen: un «dove» infinito senza sofferenza
07/07/2021

Pino Pignatta

Il brano

«Siedi immobile nel luogo
in cui non importa essere
superiore o inferiore agli altri».

«Qual è la cosa più importante della tua vita?
Quando le foglie dei pensieri cadono
e il vento porta via i fiori dell’illusione,
non c’è più nulla dietro cui correre o altro da cui fuggire.
Libero dalle tue preferenze e idee, verifichi sorpreso
che ciò che consideravi più importante,
quello che stai cercando disperatamente,
non era altro che un’illusione svanita senza lasciare traccia.
Non è rimasto nient’altro.
E all’improvviso vedi davanti a te i peschi in fiore, e quei fiori riempiono tutto l’universo.
L’intero universo è pieno
della cosa più importante della tua vita...».

Kodo Sawaki (1880-1965), monaco buddhista giapponese, scuola Zen

L'approfondimento

Queste due affermazioni del monaco giapponese Kodo Sawaki, considerato uno dei più importanti maestri Zen del XX secolo, bene ci introducono in un’altra pratica di meditazione orientale, lo Zazen, che è di origine cinese-giapponese, mentre la Vipassana, che abbiamo presentato la scorsa puntata, è di origine indiana. Sono due tecniche meditative che si sono intrecciate nei millenni: la Vipassana in India, e lo Zazen, di cui ora approfondiremo la forma fisica e la forma interiore, è il frutto del viaggio che ha portato il Buddhismo prima dall’India alla Cina, e poi dalla Cina al Giappone. Un viaggio che entrambe queste pratiche di meditazione hanno poi proseguito incontrando il mondo occidentale, affascinandolo, arrivando durante il Novecento negli Stati Uniti, e poi in Europa, quindi nelle nostre città. Si tratta anche di due tecniche molto simili nella postura dell’immobilità del corpo e nel controllo della respirazione, ma con alcune differenze.
Intanto, un brevissimo excursus storico per capire. In un tempo approssimativamente collocato verso il 520 d.C. un maestro buddhista indiano, Bodhidharma, giunge in Cina, dove inaugura una particolare forma di Buddhismo incentrata soprattutto sulla meditazione. Qui avviene un incontro fecondo con il Taoismo. In India la parola per dire meditazione era “dhyāna”, che in Cina diventa “chan”, e quando questa tradizione spirituale arriva in Giappone grazie a due maestri storici, Eisai (1141-1215), e Dōgen (1200-1253), diventa “Zen”.
Questa parola, Zen, così tanto presente oggi nella cultura occidentale, e anche in Italia (il primo a parlarne da noi è stato Umberto Eco in un saggio scritto nel 1959), così usata e abusata per descrivere uno stile di vita improntato alla serenità, alla pace, al benessere, all’essenzialità, dunque significa semplicemente “meditazione”: «Pertanto, quando si parla di Buddhismo Zen, si intende, letteralmente, quella forma di Buddhismo che coltiva in primo luogo e soprattutto la meditazione, lasciando sullo sfondo le discussioni teoriche, gli aspetti dottrinali, i riferimenti ai testi canonici, e l’uso di cerimoniali che caratterizzano, in modi e gradi diversi, tutte le altre scuole della tradizione buddhista» (Giangiorgio Pasqualotto, Dieci lezioni sul Buddhismo, Marsilio Editori).
Lo Zen, dunque, nella sua reale essenza è soprattutto pratico, tanto che si può dire che lo Zen si vive nell’atto stesso della meditazione. Essere Zen significa meditare profondamente sulla realtà della vita che esiste solo qui e ora, nell’istante. E la pratica attraverso la quale si realizza lo Zen è lo Zazen. “Zen” in giapponese significa meditazione, e “Za” significa seduta, per cui Za-Zen vuol dire “meditazione seduta”.
Che cosa significa fare Zazen? Significa sedersi in una postura come quella che abbiamo già visto per la meditazione Vipassana, e lasciare la presa sui pensieri. Posizione del corpo e attenzione alla respirazione sono praticamente uguali, come nella Vipassana. E anche la finalità, si può dire, è la stessa: diventare consapevoli della propria vera natura, riportare “la mente a casa”, e in questo modo liberarsi dei desideri, di ogni tipo di desiderio, a cui seguono gli attaccamenti, che a loro volta generano sofferenza da cui bisogna liberarsi qui e ora. Sofferenza, dolore o disagio che nel buddismo, qualsiasi sia la scuola o la pratica meditativa, si articolano sempre nei soliti paradigmi:
- il dolore di vedere, sentire le proprie energie, le proprie possibilità vitali esaurirsi nella vecchiaia;
- il terrore e il dolore che nascono dal rifiuto della nostra e dell’altrui morte;
- l’angoscia della malattia;
- il dolore della perdita;
- il dolore del non ottenimento;
- il dolore di dover convivere con persone o situazioni a noi sgradite.
Ciò che cambia più nettamente tra Vipassana e Zazen è l’approccio; nel primo tipo di meditazione ci si concentra sul respiro per giungere a una “visione profonda” di noi stessi, attraverso la concentrazione su ogni sensazione corporea, su ogni segnale del nostro organismo, su ogni dolore che percepiamo; nello Zazen, invece, al centro della pratica ci sono i pensieri, che continuamente affiorano, ma che non sono la realtà di ciò che davvero siamo in quell’istante in cui siamo seduti: sono illusioni, fughe nel passato o nel futuro della mente, e pertanto vanno lasciati andare mollando la presa, senza né ostacolarli né inseguirli, permettendo semplicemente che passino, come le nuvole sempre passano, anche le più grigie e cariche di tempesta, lasciando il cielo pulito e azzurro.
Ecco, quindi, il senso delle due letture iniziali del monaco Zen Kodo Sawaki: siediti immobile dove non importa “che cosa” sei in relazione agli altri o nel giudizio degli altri, per essere solo ciò che realmente sei. E quando le illusioni (i pensieri) cadono, appare la realtà per quella che è: i fiori di pesco che non vedevamo. Fuori dalla metafora dei peschi e dei ciliegi della tradizione giapponese, quante volte ci è capitato di passare davanti a un fiore e di vederlo, ma non di guardarlo, un fiore o un tramonto, o il colore del mare, o i tratti più nascosti del volto di una persona amata; perché la mente non è lì, ci porta da un’altra parte, ma è quell’andare da un’altra parte che genera tensione e sofferenza, in quanto in realtà non c’è un altrove in cui essere: esiste solo ciò che siamo, dove siamo, nel momento in cui siamo, cioè davanti al volto di quella persona, che non guardiamo, ed è l’unica realtà della nostra vita in quel momento.
Cogliere la realtà vera di noi stessi e del mondo in cui siamo in un rapporto di interdipendenza è lo Zen. E lo Zazen è la pratica che serve ad allenarci a “guardare” costantemente l’unica realtà che esiste, quella davanti a noi nell’istante, e poi nell’istante successivo, e poi ancora.
Per precisare la tecnica meditativa dello Zazen – che si pratica nella posizione del loto, del mezzo loto, o in quella più facile e adatta a tutti detta “birmana”, cioè con le gambe semplicemente incrociate davanti a noi, seduti su un cuscino che si chiama “zafu”, a sua volta appoggiato su un tappeto quadrato che si chiama “zabuton” – lasciamo la parola al maestro Mauricio Yūshin Marassi, leggendo insieme un passo tratto da un discorso intitolato “La questione del nascere e morire dal punto di vista Zen”:
«Apparentemente praticare Zazen è una cosa molto semplice perché tutto ciò che ci è richiesto è stare solamente seduti in una postura corretta. Tuttavia, accade naturalmente che, appena la campana che segna il tempo della seduta è suonata, ci accorgiamo che stiamo già pensando. Poiché l’intento è di stare semplicemente seduti, non seguiamo quel pensiero, ci svegliamo al nostro presente, raddrizziamo nuovamente la schiena; ma quasi subito, oppure dopo poco, cominciamo nuovamente a seguire un pensiero. Appena ce ne accorgiamo, allora, si tratta di compiere un delicato e chiaro sforzo di volontà e uscire dal nuovo sogno ad occhi aperti… e poi ancora, e ancora, e ancora occorre proseguire così: senza cedere alla tentazione di elaborare i pensieri che sorgono e senza inventarne di nuovi. L’obiettivo, però, non è impedire il sorgere dei pensieri. Quello che   veramente è importante è tornare a essere svegli ogni volta che ci perdiamo nei sogni. Questo è Zazen. Ossia, una serie, in successione, di tempi fatti di completo lasciare. Se infatti consideriamo analiticamente il nostro stare seduti, poiché in quel tempo non c’è nulla da toccare, da udire, da odorare, da vedere, da assaporare, i cinque sensi sono privi di oggetto. Le gambe sono incrociate, per cui è una rinuncia alla mobilità; durante lo Zazen si tace, per cui anche la facoltà del linguaggio è abbandonata. Se poi osserviamo quello che accade dentro di noi mentre siamo seduti in quella forma fisica, vediamo che anche la postura interiore, in armonia con lo Zazen, consiste nel lasciare andare, o nel cessare di afferrare. Dentro di noi sorgono ricordi, legati ai quali nascono emozioni, e da queste emozioni nascono speranze e desideri; oppure progetti, e futuri non ancora vissuti, valutazioni morali, sul bene e sul male delle nostre e delle altrui azioni. E poi fantasie sessuali, o semplicemente le parole di una canzone. Durante lo Zazen tutta la nostra vita, immaginativa, di relazione, intellettuale ed emotiva sorge continuamente dentro di noi. Ma, la direzione, la modalità che abbiamo scelto è puntata, mirata, dall’altra parte: non verso la diversione, verso un abbandonarci a questi pensieri, ma verso una continua conversione, cioè lasciandoli andare convergendo nel centro di noi stessi, e così trasformiamo questo continuo sorgere in un continuo cessare, in un continuo lasciare andare, in un continuo mollare la presa dai nostri pensieri. Il punto interessante in tutto questo è l’obiettivo, la direzione del nostro convergere. Da un lato c’è tutta la nostra vita, i legami familiari o quelli con la nostra comunità, le speranze e i sogni, l’amore per la vita e il timore della morte, della vecchiaia e della malattia. Dall’altro lato, quando siamo seduti in Zazen e lasciamo andare i pensieri, quando lasciamo che passino senza afferrarli, non solo tutto questo non c’è, ma non c’è neppure qualcosa, non c’è una condizione, un oggetto, un elemento pensabile, immaginabile, ottenibile. Ci troviamo in una sorta di terra di nessuno, un “dove” infinito nel quale vita e morte si incontrano e si invertono, si scambiano i ruoli».
Lo Zazen diventa, dunque, ancora una volta, nel suo lasciare andare, nel suo non aggrapparsi alle cose della vita, nel suo non resistere agli eventi, nel suo non opporre resistenza, il cuore di tutto ciò che il buddismo semplicemente è: una via di liberazione dalla sofferenza.
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