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Comunità cristiana e malati psichici: problemi e sfide – Parte 2

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07/11/2012

Luciano Manicardi, monaco di Bose

Guida alla lettura

Nella prima parte di questo articolo, Luciano Manicardi ha illustrato i limiti che le diverse comunità (familiare, sociale, ecclesiale) palesano nel rapportarsi con i malati psichici, e le situazioni in cui possono diventare esse stesse fonte di sofferenza interiore profonda.
In questa seconda parte, Manicardi solleva altre due importanti questioni. Primo, per riuscire ad avere un atteggiamento corretto verso il malato psichico dobbiamo innanzitutto affrontarne l’inquietante diversità, lavorando sul senso di paura e di sgomento che essa suscita in noi. Secondo, per poter accogliere questo tipo di malati, una comunità cristiana deve soddisfare tre requisiti fondamentali: porre al centro della propria vita la Parola di Dio, “spada a doppio taglio” che pone a nudo le ambivalenze del cuore e orienta il cammino quotidiano secondo il comando dell’amore; saper essere luogo di fraternità e di relazioni «gratuite, forti e durature»; accettare il fatto che una comunità autenticamente evangelica non è mai un «insieme dei forti», ma una compagine di persone unite «da una mancanza, una povertà, un di meno», la risultante paradossale e rivoluzionaria «della condivisione delle povertà di ciascuno». Solo a queste condizioni, difficili ed esigenti, la comunità cristiana può prendersi cura del malato psichico e, a propria volta, esserne inaspettatamente guarita.
Nell’ultima parte del brano, infine, Manicardi rievoca una straordinaria testimonianza di Jean Vanier, fondatore delle comunità dell’Arca al servizio dei disabili fisici e psichici, sull’esigenza delle persone portatrici di handicap mentali di vivere nell’amore e nella verità: un’esigenza che interpella tutto coloro che, credenti o laici, professionisti o volontari, dedicano tempo ed energie ad alleviare il dolore scatenato dall’«angosciata e disperata ricerca di senso» che segna la vita di queste persone.
Una comunità datrice di senso
Una comunità così non può che avere un connotato di fondo essenziale. Un connotato in cui consiste la sua vocazione profetica. Se il profeta è colui che fa segno, la comunità cristiana è chiamata a essere segno e a declinare la sua vocazione profetica come invenzione del senso, reperimento e creazione di senso. In un contesto culturale che tende ad evacuare la domanda sul senso giudicandola marginale e restringendo il campo d’interesse al funzionale, a ciò che è utile, conveniente economicamente, che emargina ciò che è gratuito, la chiesa ha il compito di custodire la domanda sul senso vivendo e trasmettendo la fede come cammino del senso. Proprio in questo la presenza del malato psichico, e magari del malato psichico grave, in cui le facoltà umane stesse sono drasticamente ridotte, il suo essere visto e considerato all’interno della compagine ecclesiale, può aiutare la comunità cristiana a posizionarsi correttamente. Chi è il malato psichico? Che suscita in noi? Prima di pensare a che fare per lui c’è da prendere sul serio la domanda che suscita in noi, il lavoro che ci obbliga a fare. Di fronte alle reazioni che può suscitare di paura, rimozione, estraneità, credo utile ricordare che il paziente psicotico non può non essere considerato come uno uguale a noi, anche se presenta una reale diversità; egli è immerso in un’angosciata e disperata ricerca di senso e a questo senso noi non siamo estranei, anzi. Il non-senso, l’assurdo in cui procede il malato psichico, non è destituito di senso, anzi rivela qualcosa della ricerca di senso “normale”.
Cogliamo qui un aspetto forse inatteso. Il malato mentale, proprio nella sua inquietante diversità, in questa diversità indesiderata e che ci coinvolge o almeno ci interpella e ci sgomenta in profondità, ci ricorda che cos’è la comunità cristiana. Forse proprio il malato mentale, qualora si accetti di vederlo, considerarlo, assumerlo per quanto è possibile, può aiutare la comunità a guarire lei dalle sue patologie. Sarà provocatoria, ma la questione va posta: e se fosse il malato che guarisce la comunità?
Per poter essere comunità che cura il malato psichico la comunità cristiana deve essere anzitutto e semplicemente “comunità”. E questo, l’accennavo già prima, richiede almeno tre dimensioni: centralità dell’ascolto e della celebrazione della Parola di Dio; essere luogo di fraternità e di relazioni significative; apertura al debole, in particolare al malato mentale.
a) Una comunità che sia luogo di ascolto e di celebrazione della Parola di Dio
L’ascolto della parola di Dio come centrale: solo un’ecclesia audiens, scrive Karl Barth, può essere ecclesia docens [1], ovvero, solo l’ascolto della Parola di Dio che rende la Chiesa serva, può abilitarla alla sua missione, a rispondere alle parole di Gesù che le dicono: «Guarite i malati, cacciate i demoni, annunciate che il Regno di Dio si è fatto vicinissimo» (Mt 10,7-8).
b) Una comunità che sia luogo di fraternità e di relazioni significative
Il secondo elemento costitutivo della comunità è il suo essere luogo di fraternità e relazioni significative, buone e forti, semplici e gratuite. Echeggiando quanto ha scritto il Card. Martini nel discorso del 6 dicembre 1995, si tratta di «una comunità alternativa, cioè una comunità che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, esprima la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco» [2]. Non è semplice istanza etica o economia pastorale: è obbedienza all’«amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 13,34).
c) Una comunità aperta al debole
Infine, per essere autenticamente comunità, essa deve aprirsi al debole, al malato e trovare nel debole un criterio della sua verità e autenticità. Una comunità in cui l’elemento attivo ed efficientistico divenga preminente, rischia di emarginare il debole, di non dar spazio alla presenza inutile del malato, di colui che non ha strumenti di conoscenza e di parola, e limitate possibilità di azione. Una tale comunità risponde allora a una concezione per cui la comunità deve essere l’insieme dei forti, la somma delle ricchezze di ciascuno, mentre invece ogni autentica comunità è frutto della condivisione delle povertà di ciascuno. La comunità è “com-munitas”, termine che rinvia a “munus”, che è il dovere, il mandato, il compito, ma anche il dono, in particolare il dono che si dà, il dono che ci spoglia di noi stessi e che rende coloro che vivono in una comunità dei “donati a” e “donanti a”. La “communitas” allora è l’insieme di persone unite non da una proprietà, da un possesso, da un di più, ma da una mancanza, una povertà, un di meno [3]. Paolo direbbe che la comunità è l’insieme delle persone che sono unite da un debito, il debito dell’amore reciproco (Rm 13,8). Il malato mentale, nel suo reale deficit, nella sua concreta disabilità, che (sia ben chiaro!) con tutte le forze si deve assolutamente cercare di arginare e ridurre, ricorda alla comunità il suo status di corpo – è Paolo che la definisce così – in cui le membra più deboli sono le più necessarie (1Cor 12,22).
Non da ultimo, una delle maniere in cui il malato mentale può aiutare la comunità e i membri della comunità a guarire loro spiritualmente, è il carattere rivelatore della sua disarmante inermità, della sua debolezza, della sua fragilità. Essi ci ricordano che solo chi è vulnerabile può amare e lasciarsi amare. Splendida, anche qui, la testimonianza di Jean Vanier: «Le persone portatrici di handicap hanno una terrificante capacità rivelatrice». Un malato, in una delle sue comunità, la cui madre morì al momento del parto, fu colpito da meningite e rimase gravemente leso, incapace di parlare, costretto a vivere per quattro anni completamente da solo. Fu poi accolto in una loro comunità in Africa. Quando era molto angosciato batteva furiosamente la testa contro il muro, contro le pareti. Ora, quando gli assistenti della comunità vivono una tensione o non si parlano, egli lo sente e comincia a battere la testa contro il muro: non si tratta allora di cercare uno psichiatra, ma di trovare la via di riconciliare tra loro gli assistenti. Commenta Jean Vanier: «Ciò che una persona portatrice di handicap mentale esige è che si viva l’amore e che si sia nella verità. Non si può giocare con lei, perché lo sente» [4].
Gli elementi a cui abbiamo accennato – liturgia, relazionalità e fraternità, apertura al debole, condivisione delle debolezze come essenziale nella comunità cristiana – sono costitutivi di un’unica sacramentalità, la sacramentalità che fa della chiesa un luogo in cui le energie dell’Agape di Dio si traducono in relazioni interpersonali e divengono ispiratrici di relazioni sociali. Insomma, solo una comunità sana può essere una comunità che cura. Ma una comunità sana è una comunità sanata, o meglio, una comunità malata che il Signore ha guarito: nel vangelo di Marco la figura dei discepoli sono i malati che Gesù guarisce. Noi siamo dei guaritori malati e guariti.

Note dell'Autore

1) K. Barth, La proclamazione del vangelo, Borla, Torino 1964, p. 58
2) C. M. Martini, Alla fine del millennio lasciateci sognare, PIEMME, Casale Monferrato 1997, p. 220
3) R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, pp. IX-XXXVI
4) J. Vanier, «La force de la vulnerabilité», p. 194

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi e, dal 2009, Vice Priore.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
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