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La vecchiaia, tempo di pazienza e di fiducia

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24/09/2014

Tratto da:
Enzo Bianchi, La bisaccia del pellegrino 6, Jesus, agosto 2014

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

In questa intensa riflessione, Enzo Bianchi parla della propria vecchiaia e di ciò che la vecchiaia può rappresentare per ogni donna e ogni uomo: un tempo in cui, dalla pazienza con cui si accettano i propri limiti, possono scaturire perseveranza e fiducia.
Parole che riecheggiano ciò che Bianchi, nella scorsa puntata di questa rubrica, raccontava di avere appreso dagli alberi dei boschi: «Da loro ho imparato a durare, a perseverare, a “stare lì”, a resistere nelle stagioni dure, a piegarmi sotto pesi che a volte sembrano volermi schiacciare. Dagli alberi ho imparato a perdere tante cose, come loro perdono le foglie, e sto ancora imparando ad accettare l’inverno quando sembrerà che tutto sia finito».
Il senso di questo resistere è nitido nella parola greca che traduciamo con “pazienza”: hypomoné, in cui il prefisso “hypó” esprime proprio lo stare sotto qualcosa, e il cui verbo correlato, “hypoménō”, significa sopportare, tollerare, perseverare, ma anche restare indietro e permanere. Questi ultimi due ci sembrano i significati più suggestivi: l’anziano accetta di rimanere un passo indietro in un mondo che corre veloce, ma al tempo stesso permane, rimane lì, ad additare una saggezza di vita che può soccorrere l’inesperienza dei giovani.
La vecchiaia di Bianchi presenta sintomi che tutti gli anziani possono riconoscere: «Lentezza nello svegliarsi e nell’attendere ai primi riti del “venire al giorno”; insofferenza sempre più marcata verso i rumori, la folla, il vociare; l’emergere della penombra come uno spazio che può essere abitato da pace e gioia; l’alzarsi più faticoso dalla poltrona su cui si ama leggere i giornali». E anche il progressivo allontanamento degli amici, per i malanni e la debolezza, è un mesto segnale del tempo che si fa breve. Ma è proprio allora che gli affetti diventano importanti per lottare con le tante “piccole morti” che segnano la vita: solo l’amore dato e ricevuto può in ultima analisi alimentare la pazienza e la perseveranza, e suscitare quella fiducia che, per il credente, è fede in una realtà altra che ci attende, ma che anche per chi non crede può diventare il solo sentimento possibile quando nulla ormai dipende dalla sua volontà.
“Senesco”. Divento vecchio. I giorni, gli anni volano via, e io mi ritrovo a essere sempre più vecchio, sempre più capace di misurare la distanza della mia andata via da questo mondo. Non ho ancora perso le forze, le sento solo diminuite. Non sono malato ma sono più debole, e piccoli mali alle ginocchia, ai piedi, alla schiena sono sempre più frequenti. Non ho perso la memoria ma ricordo le cose in modo nuovo, come se fossero realtà più distanti…
Quanto al mio cammino umano, ci sono acquisizioni di atteggiamenti prima non facilmente consolidati, e ci sono invece alcune virtù che appaiono con un’urgenza nuova, oltre che essere messe a fuoco come mai mi era successo. Una di queste virtù è la pazienza, che so tradurre il greco “hypomoné”, parola che contiene l’idea del “restare sotto” (hypó), per sostenere certo, ma che implica anche una sottomissione. Sì, ci si deve mettere sotto per restare sotto. Pazienza non è resa, ma sottomissione. Proprio la debolezza che si incontra con la vecchiaia autorizza alla pazienza, che diventa però una forza, una grande forza capace di perseveranza.
Tutto questo non viene da sé, non è automatico, ma se si è capaci di fare buon uso della vecchiaia, allora è un possibile cammino. Un cammino tra limiti crescenti che appaiono uno dopo l’altro senza troppo rumore e senza annunciarsi prima. Lentezza nello svegliarsi e nell’attendere ai primi riti del “venire al giorno”; insofferenza sempre più marcata verso i rumori, la folla, il vociare; l’emergere della penombra come uno spazio che può essere abitato da pace e gioia; l’alzarsi più faticoso dalla poltrona su cui si ama leggere i giornali. E poi il constatare la crescita della propria dipendenza dagli altri: si accresce la coscienza dei propri limiti, si ha più bisogno degli altri e sovente si deve scegliere se chiamarli o rinunciare a qualcosa.
Ogni piccola malattia appare come una piccola morte, una sospensione del tempo che altera il ritmo della vita e ci spinge in una situazione di estraneità a noi stessi. Non sono più le malattie dell’infanzia, piene di favole raccontate, in attesa delle visite dei compagni e dei doni delle spremute o del gelato o della granatina. Allora diventare malati sembrava un’occasione per sottrarsi alla routine della scuola. Ora invece la piccola malattia offre familiarità con la fragilità del corpo, che diventa qualcosa che si ha, che si trascina, che ci fa sentire il male.
Quanto alla rete degli amici, ci si accorge che sono distanti, che non hanno tempo, che è diventato difficile, proprio a causa dell’età, reincontrarsi. «Ormai ci muoviamo poco», «Siamo diventati pigri», «Non mi fido più a guidare l’auto»: e così non la presenza ma la voce viene a spezzare la nostra solitudine. «Pazienza!», si dice con una certa amarezza…
E poi cosa succede agli amanti? I loro corpi non più erotizzati devono imparare la vicinanza e l’intimità senza aggressività e senza passione, ma in un possibile amore estatico che conosce altre profondità. Com’è diversa la carezza di un giovane alla sua ragazza da quella di un uomo anziano alla sua donna! La mano trema non per la vecchiaia, ma per un eccesso di coscienza dell’amore.
Questa fase ultima della mia vita, così disarmata e dipendente, non è forse ciò che mi attende come cammino di fede? Mi viene chiesta pazienza, sottomissione, non resa. E con la pazienza ciò che la può sostenere: la fiducia. Sì, vengono i giorni in cui sarò sempre più povero, in cui neanche i libri che fanno da parete alla mia cella mi diranno qualcosa, e forse non troverò viatico in nulla, in nulla! Gli altri hanno troppo da fare per seppellire i morti, e io, non potendo più nulla, potrò solo avere fiducia, aiutato in questo dalla sempre crescente dipendenza. Altro che arte di lasciare la presa! Solo arte di tendere le mani al di là della morte verso le mani del Signore tese verso di me per prendermi nel suo abbraccio.

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele), Ostuni (Brindisi), Assisi e San Gimignano.
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani.
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