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La vecchiaia, un tempo da vivere altrimenti

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22/02/2017

Tratto da:
Enzo Bianchi, Chi porta il peso, Osservatore Romano, 28 gennaio 2017

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Lo scorso 25 gennaio, Enzo Bianchi ha rinunciato all’incarico di priore di Bose. Il passo, a lungo preparato, è stato illustrato con antiche parole di sant’Agostino a commento di un salmo: «I cervi, quando camminano nella loro mandria, appoggiano ciascuno il capo su quello di un altro. Solo uno, quello che precede, tiene alto senza sostegno il suo capo e non lo posa su quello di un altro. Ma quando è affaticato, lascia il primo posto e un altro gli succede». Dando le dimissioni, Bianchi ci affida dunque una riflessione matura e profonda sulla vecchiaia, e su come la vecchiaia debba essere vissuta in obbedienza al tempo che, fuggendo, rinnova ogni cosa.
L’articolo, splendido affresco degli inizi di Bose e della sapienza che ne regola il funzionamento, contiene alcuni pensieri eloquenti anche per chi vive nelle agitate acque del mondo. Il primo è che «chi ha iniziato un’opera non può pensare di portarla a compimento». Questa affermazione così netta stride non poco con la pretesa di efficienza che contraddistingue la mentalità contemporanea: oggi, chi non esige da se stesso di realizzare a pieno i propri progetti? Ma la vita è breve e complessa, e tutti hanno bisogno di qualcun altro per inverare il proprio destino: per il credente è lo Spirito di Dio, per il laico sono coloro che condividono i suoi sogni. E’ segno di realismo rendersi conto che nulla è completamente nelle nostre sole mani, e che ciò è tanto più vero quando l’autunno della vita si avvicina.
Il secondo pensiero è che «occorre obbedire alla nostra condizione e accettare la vecchiaia come un tempo da viversi altrimenti, con altre funzioni e altre testimonianze da dare»: il che non significa abdicare alle proprie responsabilità, ma appunto rinnovarle e viverle in una luce nuova. Anche qui percepiamo un atteggiamento insolito ai nostri giorni, così caratterizzati dalla martellante propaganda di una terza età giovanilistica e sempreverde, triste parodia di ciò che dovrebbe essere il tempo del ritorno all’essenziale. Quanto del declino, dello spreco di capacità ancora intatte che osserviamo in tanti anziani, potrebbe essere prevenuto accettando l’idea che «altre funzioni e altre testimonianze» sono non solo legittime, ma appropriate all’età più avanzata?
Il terzo pensiero, infine, è che anche «quelli che hanno reso difficile e contraddetto il nostro cammino» sono meritevoli di gratitudine, perché sono stati occasione di obbedienza ai nostri valori e ai nostri obiettivi. Vivere è un’arte difficile che richiede di non arrendersi mai, anche quando, giovani e in forze, ci sembra che il tempo a nostra disposizione sia illimitato, che sempre ci possa essere una seconda opportunità, che la rinuncia – per convenienza del presente o per paura del futuro – non sia un atto destinato, prima o poi, ad essere pagato a caro prezzo. In questo senso, anche gli ostacoli hanno valore e la capacità di superarli “nonostante” fa parte di un corretto approccio alla vita, in tutte le sue stagioni.
Nella Chiesa, a partire dal IV secolo, uomini e donne hanno dato inizio a forme di vita che volevano essere ispirate dal Vangelo. Era la loro fede e il loro amore per il Signore Gesù Cristo che li spingeva a “inventare” comunità dove si potesse vivere il primato della Parola e il comandamento nuovo della carità. Dai padri del deserto a san Pacomio e san Basilio in oriente, a san Benedetto e altri in occidente, fino alle fondazioni contemporanee, è stata originata una risposta all’unica vocazione cristiana nelle pluralità di vie monastiche diverse. Il Signore nel giorno del giudizio dirà la sua parola sia su chi ha iniziato una forma di vita sia su quelli che l’hanno intrapresa.
Quando, alla fine del concilio Vaticano II, decidevo di abbracciare la vita monastica e iniziavo a dimorare nella solitudine di Bose, non pensavo e non progettavo lo sviluppo che la comunità avrebbe avuto. Al Signore chiedevo soltanto: «Se è la tua volontà, donami alcuni fratelli perché si possa vivere un monastero semplice e attuale in cui si cerchi un’unica cosa: vivere il Vangelo, e nient’altro». Dal 1968 cominciarono a raggiungermi fratelli e sorelle cattolici e cristiani di altra confessione: io ho semplicemente detto «Amen», confermato da padre Michele Pellegrino che ha custodito e accompagnato gli inizi della nostra comunità.
Ho sempre ritenuto che chi ha iniziato un’opera non può pensare di portarla a compimento, perché questo spetta allo Spirito santo e non mi sono mai sentito insostituibile. Entrando nell’anzianità e discernendo, non da solo, la maturità della comunità, ho pensato che era venuta l’ora di lasciare il posto di priore a un altro fratello. Un commento di sant’Agostino al salmo 41 (42) era da me meditato: «Si dice che i cervi […] quando camminano nella loro mandria […] appoggiano ciascuno il capo su quello di un altro. Solo uno, quello che precede, tiene alto senza sostegno il suo capo e non lo posa su quello di un altro. Ma quando è affaticato, lascia il primo posto e un altro gli succede».
Nel decidere dunque di lasciare il priorato, ho voluto innanzitutto una visita fraterna alla comunità, in analogia alla visita canonica propria delle congregazioni monastiche. Padre Michel Van Parys, già abate di Chevetogne e Grottaferrata, e l’abadessa trappista di Blauvac, madre Anne-Emmanuelle Devêche, nel 2014 hanno incontrato per alcune settimane tutti i membri della comunità, sostando a Bose e visitando le fraternità, in modo da poterci dare una lettura, esterna ma in solidarietà di vocazione, della vita materiale e spirituale della comunità. Alla fine di quella visita intendevo dimissionare, ma i visitatori mi hanno chiesto di restare per portare a compimento il nuovo statuto, come si imponeva dopo la creazione delle quattro fraternità. Ho così continuato a presiedere, ma avvertendo a più riprese la comunità che erano gli ultimi mesi del mio servizio e assentandomi sovente affinché la comunità potesse imparare a vivere senza la mia guida diretta.
Nella storia di ogni nuova comunità monastica il passaggio di guida dal fondatore alla generazione seguente è un segno positivo di crescita e di maturità. Scrive l’apostolo: «Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere» (1 Corinzi 3,6). La vita continua, la fondazione è stata feconda e di questo ringraziamo il Signore: è quindi giunto il tempo e la sera del 26 dicembre scorso, vigilia di san Giovanni apostolo, ho annunciato le dimissioni e indetto il capitolo generale elettivo per il 25 gennaio, rivelazione di Gesù Cristo a Paolo apostolo, con l’inizio delle votazioni il 26 gennaio, memoria dei santi abati di Cîteaux.
Ho ancora avuto modo di dire alla comunità il bonum del lasciare il posto di priore per tanti motivi. Innanzitutto, nella mia vita ho conosciuto fondatori che sono restati in carica fino alla morte, mettendo sovente in difficoltà le loro comunità. Occorre obbedire alla nostra condizione e accettare la vecchiaia come un tempo da viversi altrimenti, con altre funzioni e altre testimonianze da dare. Credo anche che un fondatore debba mostrare con un atto di distacco che la comunità non gli appartiene perché essa resta comunità del Signore.
Certamente chi ha iniziato e dato forma a una vita monastica ha assunto responsabilità che non possono venir meno né sono trascurabili, quali il vegliare sulla fedeltà al Vangelo e alla regola monastica e sulla comunione con la Chiesa. Viene lasciato il governo, non l’insegnamento, non la testimonianza: il fondatore resterà un fratello tra i fratelli e obbedirà anche lui al nuovo priore, fratello o sorella, partecipando alla vita comunitaria come tutti gli altri, né più né meno.
Per tutto questo nasce il ringraziamento al Signore, innanzitutto, ai fratelli e alle sorelle che percorrono questa nostra storia monastica, ai pastori della Chiesa che ci hanno custoditi e amati, dal cardinale Pellegrino al nostro vescovo padre Gabriele Mana. E ringrazio anche il Signore per tutti quelli che hanno reso difficile e contraddetto il nostro cammino, perché anche loro sono stati occasione di obbedienza al Vangelo.
Unica sofferenza che porto nel cuore in questo momento è la consapevolezza delle difficoltà che il monachesimo cattolico vive e il fatto che oggi è entrato in un cono d’ombra nella vita della Chiesa. I monaci si sentono dimenticati, ma anche questo fa parte della loro vocazione di marginali, di cristiani che vivono sui confini.
Il Signore che è sempre fedele ci ha accompagnato anche nell’elezione del nuovo priore: fratel Luciano Manicardi, monaco di Bose dal 1980, poi maestro dei novizi e dal 2009 vice-priore, è stato eletto al primo scrutinio, segno di una grande unità della comunità. La liturgia di inizio del suo ministero di priore ha inaugurato una nuova stagione per la nostra comunità. In quest’ora mi abita un’unica grande preghiera: che il Signore abbia misericordia di tutti noi, ora e nel giorno del giudizio.

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. E’ stato priore dalla fondazione del monastero sino al 25 gennaio 2017: gli è succeduto Luciano Manicardi. La comunità oggi conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele), Ostuni (Brindisi), Assisi e San Gimignano.
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
Enzo Bianchi e Luciano Manicardi
Enzo Bianchi e Luciano Manicardi
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